mercoledì 28 ottobre 2015

Che bello......guardarsi negli occhi !

Su.....guardiamoci negli occhi!!! Nonostante il contatto possa essere a volte poco piacevole, non bisognerebbe mai abbandonarlo. In un'epoca dominata da smartphone e computer, è certamente necessario continuare a toccarsi, sfiorarsi, guardarsi per mantenere viva la relazione con gli altri. E' evidente che quando due persone non si vedono, la qualità della loro relazione diminuisce. I social network possono rallentare questo declino, ma non fermarlo definitivamente.E quindi..... abbiamo bisogno davvero di guardarci negli occhi l'un l'altro !

venerdì 23 ottobre 2015

MI STA A CUORE: LASCERA' SOLO MACERIE.....

MI STA A CUORE: LASCERA' SOLO MACERIE.....: Corre senza fiato e....lascerà solo macerie ! Di Craxi ha l’arroganza e la presunzione,ma non il profilo da politico di lungo corso (l’uomo...

LASCERA' SOLO MACERIE.....

Corre senza fiato e....lascerà solo macerie ! Di Craxi ha l’arroganza e la presunzione,ma non il profilo da politico di lungo corso (l’uomo che aveva ridato orgoglio a un Psi umiliato dal compromesso storico) e l’aura dell’Internazionale Socialista intorno, oltre che il partito nel pugno. Di Berlusconi ha lo stile da istrione e la ciarlataneria, che piace a molti italiani, ma non il capitale monetario e umano che Mediaset e Publitalia (con qualche compartecipazione quantomeno opaca) assicuravano. Dei precedenti leader non è neppur degno del confronto. Aveva, in compenso, fin dall’inizio un’unica risorsa su cui puntare: il mito della velocità. Mito marinettiano (un po’ frusto per la verità, un se c o l o p i ù tardi). E un unico profilo da presentare: quello che Walter Benjamin aveva chiamato il carattere del distruttore (quello che conosce “solo u n a p a r o l a d’ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia”; e per il quale si può dire che “l’esistente lui lo manda in rovina non per amore delle rovine, ma per la via che vi passa attraverso”).Come nel caso della nuova tecnologia usata in America per produrre idrocarburi, frantumando gli strati schistosi,anche Matteo Renzi pratica, programmaticamente, il fracking, generando energia dalla frantumazione di tutto ciò che gli sta sotto, a cominciare dal partito che l’ha portato fin sulla cima della piramide , e dalla macchina dello Stato. Accelerando non la soluzione, ma la crisi stessa. Rischiando di lasciare tutti – dopo aver fagocitato tutto -“ nudi alla meta”. O meglio, nudi di fronte al potere, dopo la distruzione dei diversi corpi intermedi che tradizionalmente avevano fatto da filtro e contrappeso , delle strutture di rappresentanza politica e sociale, delle culture politiche, capaci di aggregare individui e frammenti sociali, del suo stesso partito. In una parola, di quella complessità organizzata che da sempre ha garantito un livello, sia pur minimo e insufficiente,di pluralismo e di articolazione in una società complessa, preservandola dal rischio e dalla tentazione dell’uomo solo al comando di fronte a una società di atomi competitivi. (M.R.)

lunedì 12 ottobre 2015

La croce sopra il Campidoglio .

Nella vicenda della lenta ago­nia, fino all’annuncio delle dimis­sioni, del sin­daco di Roma Igna­zio Marino, alle gerar­chie eccle­sia­sti­che (Cei e Vica­riato di Roma, più che Vati­cano) e a parte dell’associazionismo cat­to­lico (comu­nità di Sant’Egidio in testa) spetta un ruolo di primo piano. Non per­ché sia stato papa Fran­ce­sco con le sue dichia­ra­zioni «ad alta quota» di ritorno dall’America — «io non ho invi­tato il sin­daco Marino a Phi­la­del­phia, chiaro?» — a deter­mi­nare la caduta del primo cit­ta­dino, seb­bene gli abbia asse­stato un duro colpo. Ma per­ché i vescovi hanno con­tri­buito al suo logo­ra­mento cin­que minuti dopo l’elezione. Anzi anche prima. «Ci si inter­roga sulle pos­si­bili svolte della nuova tra­zione che potrebbe con­se­gnare all’anima più lai­ci­sta di largo del Naza­reno lo scranno del Cam­pi­do­glio», scri­veva Avve­nire all’indomani delle pri­ma­rie vinte da Marino. E il giorno dopo lan­ciava l’allarme: «Cam­pi­do­glio, rischio-deriva sui valori» a causa di «un certo tipo di impo­sta­zione sul ver­sante etico, con poten­ziali rica­dute sulle scelte di poli­tica familiare». Alla vigi­lia delle ele­zioni, poi, sem­pre Avve­nire dava ampio spa­zio a un docu­mento di una serie di asso­cia­zioni (fra cui Forum asso­cia­zioni fami­liari, Movi­mento per la vita, Com­pa­gnia delle opere, Alleanza cat­to­lica) in cui la patente di «can­di­dato cat­to­lico» veniva asse­gnata a Gianni Ale­manno, e Marino sono­ra­mente bocciato. All’indomani della vit­to­ria del chi­rurgo, lo ammo­niva ad evi­tare di «pro­get­tare e pra­ti­care for­za­ture in sedi impro­prie» e ad «aprire campi di bat­ta­glia sulle que­stioni che inve­stono valori pri­mari». «Ci augu­riamo che nes­sun sin­daco si imbar­chi in improv­vide avven­ture antro­po­lo­gi­che», riba­diva il Sir, l’agenzia dei vescovi, «non ci si fa eleg­gere per inven­tare nuovi diritti o met­ter su improv­vi­sati labo­ra­tori sociali». «Cat­to­lico adulto» assai vicino al car­di­nal Mar­tini — con cui pub­blicò prima un lungo dia­logo sull’Espresso e poi un libro (Cre­dere e cono­scere, Einaudi) di grande aper­tura su temi etici -, Igna­zio Marino è agli anti­podi della dot­trina cat­to­lica sui «prin­cipi non nego­zia­bili», quindi assai temuto dalle gerar­chie ecclesiastiche. Il chirurgo cercò il papa per informarlo della trascrizione delle nozze omosessuali. Ma Bergoglio si negò ritenendola una provocazione La que­stione esplode ad otto­bre 2014, quando il sin­daco tra­scrive nei regi­stri comu­nali i matri­moni cele­brati all’estero da 16 cop­pie omo­ses­suali. «Scelta ideo­lo­gica, che cer­ti­fica un affronto isti­tu­zio­nale senza pre­ce­denti», tuona il Vica­riato di Roma. E in que­ste ore si apprende che pro­prio il giorno prima delle tra­scri­zioni, Marino tele­fonò in Vati­cano per infor­mare diret­ta­mente il papa, che però non parlò con il sin­daco e anzi con­si­derò quella tele­fo­nata quasi una provocazione. Negli ultimi giorni il lac­cio si stringe, fino al sof­fo­ca­mento. Deci­sivo è “l’incidente” dell’invito-non invito a Phi­la­del­phia, sul quale mon­si­gnor Paglia — sto­rica guida spi­ri­tuale della Comu­nità di Sant’Egidio -, alla tra­smis­sione radio­fo­nica La zan­zara, cre­dendo di par­lare con Mat­teo Renzi, dice parole duris­sime: «Marino si è imbu­cato, nes­suno lo ha invi­tato, il papa era furi­bondo». Poco dopo, la Comu­nità di Sant’Egidio è fra i primi a sbu­giar­dare il sin­daco, smen­tendo che ad una cena regi­strata dai famosi scon­trini siano stati pre­senti rap­pre­sen­tanti della Comu­nità, come invece asse­rito da Marino. Una posi­zione, quella di Sant’Egidio, che potrebbe nascon­dere qual­che inte­resse: in pas­sato il nome del fon­da­tore Andrea Ric­cardi era emerso come pos­si­bile can­di­dato a Roma, se ora rispun­tasse fuori con più forza, sareb­bero più chiare le ragioni per azzop­pare Marino. Annun­ciate le dimis­sioni, Oltre­te­vere non si strac­ciano le vesti, anzi. «Epi­logo ine­vi­ta­bile», scrive L’Osservatore Romano, «la Capi­tale ha la cer­tezza solo delle pro­prie mace­rie», «Roma dav­vero non merita tutto que­sto». «Adesso basta», aggiunge Avve­nire, che saluta la chiu­sura di «una paren­tesi che non sem­bra desti­nata a lasciare un segno inde­le­bile nella sto­ria quasi tri­mil­le­na­ria di que­sta città», ora «Roma merita one­stà e decisa cura». «Il tema di una nuova classe diri­gente non è più rin­via­bile», diceva ieri sera in una par­roc­chia il car­di­nal Val­lini, vica­rio del papa per Roma. E il Sir trac­cia l’identikit del nuovo primo cit­ta­dino di una città con una «mis­sione sto­rica, quella di porta di ingresso alla sede della cristianità».Un sindaco cattolico quindi....ma non come Marino! (L. K.)

sabato 3 ottobre 2015

Ma che Rivoluzione! Per carità!

La morte di Pietro Ingrao sembrerebbe aver innescato un sentimento collettivo di nostalgia generazionale. La nostalgia, se coltivata privatamente, è un sentimento come un altro. Ma ,quando diventa collettiva, assume consistenti sfumature di oscenità. La più ripugnante è questo ri-pensarsi delle generazioni italiche novecentesche, considerandosi come ex-rivoluzionarie. Non so voi, ma io, ripercorrendo l'intera mia esistenza di non-militante (e tuttavia fedelmente immancabilmente votante PCI), mi accorgo di non essere mai stato un rivoluzionario, anche se ho molto parlato di Rivoluzione. Non solo io non lo sono mai stato, ma la gran parte del Partito, dal '46 in poi, non lo fu mai. Non lo fu Ingrao, non lo furono le ali estreme, non lo furono i fuoriusciti del Manifesto, non lo furono partiti come il PSIUP: nessuno che nel PCI contasse qualcosa fu mai un vero rivoluzionario. «Non ci sono le condizioni», si diceva in continuazione: certo che non c'erano. L'Italia faceva parte della metà del mondo occidentale che nella spartizione di Yalta si assegnava all'impero americano, era nella Nato: non solo non ci sarebbe stata consentita la rivoluzione proletaria, ma era impossibile anche l'ingresso del PCI in una coalizione di governo, per non parlare di una maggioranza parlamentare e conseguentemente di un governo a conduzione comunista. Ma non furono queste le vere cause del nostro parlare di Rivoluzione senza essere rivoluzionari, cioè senza essere realmente disposti alla Rivoluzione. Secondo la mia visione i veri motivi furono altri. Il primo, e il più importante, era che stavamo abbastanza bene nel capitalismo italiano. Il Paese cresceva economicamente, la sinistra rivoluzionaria giovanile collaborava indirettamente alla sua necessaria ristrutturazione, facendolo uscire da uno stato prolungato di vetero-cattolicesimo autoritario, e introducendolo alla laicità consumista di cui ha bisogno il mercato moderno. Non esisteva uno stato di ingiustizia sociale estrema e di massa, ma solo un normale sfruttamento, con tassi di disoccupazione accettabili: la sofferenza e il disagio venivano però occultate dalle buone condizioni economiche degli operai occupati, di una piccola borghesia in ascesa sociale. Il Paese da povero che era diventava, se non proprio ricco, riccastro: il reddito veniva, sia pure moderatamente, re-distribuito, il capitalismo era frenato mitigato contrastato da un forte movimento operaio. Cioè da PCI & sindacati. In questo senso il PCI fu agente determinante per la crescita capitalista. La Rivoluzione proletaria non si può fare in un paese con consistenti elementi di social-democrazia, perché viene a mancare proprio la disperazione proletaria di cui dovrebbe nutrirsi. Il secondo motivo di ripulsa della Rivoluzione, probabilmente derivato dalle condizioni di civiltà raggiunte, fu la silenziosa non accettabilità di una implicita conseguenza dell'insurrezione: lo scorrere del sangue. Sangue che già in effetti scorreva abbondante nello scontro tra terroristi (questi sì, veri rivoluzionari, proprio per l'atrocità dei loro metodi e proprio per questo completamente isolati) e Stato e che de-stabilizzava il tacito, mai dichiarato, patto di reciproca assistenza PCI-Istituzioni. La de-stalinizzazione sovietica, prontamente adottata dal comunismo italiano, ripudiava violenza, purghe e gulag come atrocità assolute, paragonabili a quelle del nazismo, dimenticando che senza atrocità, purghe e gulag non c'è Rivoluzione. Si discuteva se lo stalinismo fosse già nel leninismo, cui si voleva restare il più possibile agganciati, pena la caduta totale di una teoria e di una prassi della Rivoluzione. La risposta, mai ufficialmente data, era naturalmente affermativa: non puoi abolire la proprietà privata senza tagliare un bel po' di teste. Il comunismo era quello che si vedeva là dove si era realizzato. Ma da un certo momento in poi si cominciò a fare finta di no. Quello vero era tutt'altra cosa. In Russia nessuno moriva più di fame, non c'erano più servi della gleba, tutti avevano diritto a Casa Istruzione Lavoro Salute, ma non c'era "libertà". Dunque occorreva costruire un comunismo diverso, munito di «libertà», senza però chiamarlo col suo vero nome: socialdemocrazia. Fu su questa ambiguità, sull'enorme quantità di non detto, che il PCI si incagliò nelle secche dell'89. Rotolò sulla battigia del neo-capitalismo e lì si arenò. Mostrando una capacità trasformista degna della migliore tradizione italiana, divenne progressivamente ciò che è oggi, assumendosi quel lavoro sporco che il capitalismo finanziario europeo esigeva da tempo e che Berlusconi non aveva saputo/voluto fare, per sostanziale incompetenza e disinteresse per la cosa pubblica. Ora, a cento anni, ci muore Pietro Ingrao ed è come fosse davvero la fine della storia del comunismo italiano: era estinto da tempo, ma non ancora sigillato nella tomba. Come molti di noi, lo piango e piango Pietro Ingrao. Ma non andrò ai funerali, non alzerò il pugno, non canterò Bandiera rossa. Da un paio di decenni il comunismo non può essere altro che un silente stato interiore. Una categoria incomunicabile dell'anima, un rovello, un dubbio, una perdita. Ma il marxismo ci fornisce ancora la possibilità di mantenere una qualche lucidità di sguardo sul presente. Purché tutto ciò che pensiamo resti non-detto. «Noi siamo sconfitti», diceva Pietro. Niente è più vero di questa ammissione. Ma allo stesso tempo niente ormai può distoglierci dalla coltivazione interiore dell'idea socialista, nessuno può convincerci della superiorità di questo liberismo da stronzetti. Siamo novecenteschi vetero-ostinati, apparentemente convinti che non ci avranno, mentre siamo loro da molto tempo. Forse siamo sempre stati loro ! (F.P.)

giovedì 1 ottobre 2015

Un monito......per tutti......rivolto soprattutto ai giovani!

«Chi spera, cammina: non fugge. Si incarna nella storia, non si aliena. Costruisce il futuro, non lo attende soltanto. Ha la grinta del lottatore, non la rassegnazione di chi disarma. Cambia la storia, non la subisce».

MI STA A CUORE: Quel 29 settembre.........guai a dimenticare!

MI STA A CUORE: Quel 29 settembre.........guai a dimenticare!: C'era la nebbia quella maledetta mattina del 29 settembre 1944 quando le SS della 16° divisione al comando del Maggiore tedesco Walter...

Quel 29 settembre.........guai a dimenticare!

C'era la nebbia quella maledetta mattina del 29 settembre 1944 quando le SS della 16° divisione al comando del Maggiore tedesco Walter Reder cinsero d’assedio Monte Sole, Monte Venere e le valli del Setta e del Reno, nei pressi di Marzabotto sull'Appennino bolognese. I soldati nazisti, favoriti dalle vigliacche spie fasciste, sorpresero la resistenza partigiana, compiendo quella che Salvatore Quasimodo definì «il più vile sterminio di popolo»: dopo una settimana di stupri, torture, umiliazioni, fucilazioni sommarie, le squadracce naziste lasciarono dietro il loro passaggio 1830 vittime, oltre 700 solo a Monte Sole: 315 donne, 189 bambini sotto i 12 anni, 30 adolescenti, 76 vecchi e 161 uomini. Le stragi avvennero in 115 luoghi tra chiese, borgate, paesi e ridisegnarono, per sempre, anche il territorio compreso tra il corso del Setta e quello del Reno. Non fu rappresaglia ma una specifica, vile, disumana, azione militare. Guai a dimenticare: la memoria rende onore alle vittime e dignità all'identità antifascista.