mercoledì 28 gennaio 2015

COME SI CREA UN LEADER !

La creazione del leader è un argomento alquanto spinoso per tutti noi. Le figure carismatiche, tanto invocate da più parti, rappresentano sempre personaggi dai molti lati oscuri. “Molti sono coloro che lo vedono [Hitler] come un modello, con una fede quasi commovente nelle sue doti di protettore, di salvatore, di colui che li libererà dalla loro disperazione”afferma Louis Solmitz, insegnante di Amburgo, 1932. Il forte desiderio della popolazione di avere leader politici carismatici costituisce sempre terreno fertile per l’uso della propaganda. Durante il periodo fortemente instabile della Repubblica di Weimar, i Nazisti sfruttarono questo desiderio per consolidare il proprio potere e rafforzare l’unità nazionale; essi raggiunsero questo obiettivo attraverso la campagna, accuratamente studiata, con la quale crearono l’immagine del capo del Partito Nazista, Adolf Hitler. La propaganda nazista favorì la rapida ascesa del Partito e dei suoi dirigenti prima a una posizione di potere politico e, poi, al controllo della nazione intera. In particolare, il materiale prodotto per le campagne elettorali a partire dagli anni ’20 e per tutti gli anni ’30, insieme ai materiali visivi dal forte impatto e le apparizioni publiche attentamente orchestrate, collaborarono a creare il “culto del capo” intorno ad Adolf Hitler, la cui fama crebbe essenzialmente grazie ai discorsi che egli pronunciò ai grandi raduni di massa, alle parate e alla radio. Nel costruire il personaggio pubblico, i responsabili della propaganda Nazista dipinsero Hitler a volte come un soldato pronto all’azione, altre volte come un padre e, infine, persino come un messia giunto a riscattare il destino della Germania. Tecniche moderne di propaganda – incluse immagini forti accompagnate da messaggi semplici – aiutarono a proiettare Hitler dal ruolo di piccolo estremista poco conosciuto (oltretutto nato in Austria e non in Germania) a candidato principale alle elezioni presidenziali tedesche. Durante la Prima Guerra Mondiale il giovane Hitler, che era stato nell’esercito e aveva combattuto al fronte dal 1914 al 1918, venne fortemente influenzato dalla propaganda usata in quel periodo. Come molti altri, Hitler credeva fermamente che la Germania avesse perduto quella guerra non perché sconfitta sul campo di battaglia, ma a causa della propaganda nemica. Egli pensava che i semplici e chiari messaggi con i quali i vincitori di quel primo conflitto mondiale (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti e Italia) avevano inondato la Germania, avessero dato coraggio alle truppe nemiche, sottraendo contemporaneamente ai Tedeschi il desiderio e la forza di continuare a combattere. Hitler comprendeva assai bene il potere di certi simboli, di certa oratoria e di certe immagini, perciò creò slogan politici in grado di raggiungere le masse in modo semplice, concreto ed emotivamente accattivante. Dal 1933 al 1945, la pubblica adulazione di Adolf Hitler costituì un elemento costante della vita tedesca: i responsabili nazisti della propaganda dipinsero il loro capo [il Führer] come la personificazione della Germania e come un uomo che emanava forza da un lato e devozione cieca alla patria dall’altro. I pubblici annunci, che venivano trasmessi ripetuttamente, rinforzarono poi l’immagine di Hitler come colui che avrebbe riscattato una Germania umiliata dai termini del Trattato di Versailles (con il quale si era conclusa la Prima Guerra Mondiale). Il culto di Adolf Hitler fu un fenomeno di massa deliberatamente creato e coltivato dai dirigenti del Nazismo: sia i responsabili della propaganda che i numerosi artisti arruolati tra le loro fila disegnarono ritratti, poster e busti del Führer, che vennero poi riprodotti in grandi quantità e distribuiti sia nei luoghi pubblici che nelle abitazioni private. Contemporaneamente, la casa editrice del Partito Nazista stampò milioni di copie dell’autobiografia politica di Hitler, Mein Kampf (La Mia Battaglia) molte delle quali in edizioni speciali, come ad esempio quelle realizzate apposta per le coppie appena sposate o le edizioni in Braille per le persone non vedenti. La propaganda nazista celebrava Hitler come statista geniale che aveva portato stabilità al paese, creato posti di lavoro e restaurato la grandezza della Germania. Durante gli anni in cui il Partito Nazista rimase al potere, i Tedeschi furono obbligati a dimostrare pubblicamente la propria fedeltà al Führer, a volte in forme semi-rituali come, per esempio, il saluto Nazista o la frase “Heil Hitler!”, cioè la formula che si doveva usare quando si incontrava qualcuno per strada, ribattezzata poi “Saluto Germanico”. La fede cieca in Hitler contribuì a rafforzare il senso di unità nazionale, mentre il rifiuto ad adattarsi a tali dimostrazioni di devozione venne visto come evidente segno di dissenso, fatto questo che assumeva anche un peso particolare in una società dove qualunque critica esplicita al regime, e ai suoi capi, poteva portare all’arresto e alla detenzione.

martedì 27 gennaio 2015

LA STAMPA E IL NAZISMO

Così come Gramsci era consapevole dell’importanza di avere un organo di stampa, tanto da fondare l’Ordine Nuovo in tempi che definirsi per noi impossibili è solo un eufemismo, altrettanto questo articolo pubblicato sull’Enciclopedia dell’Olocausto ci racconta quanto ne fossero consapevoli anche i nazisti e quanto organizzata e mirata fosse la propaganda. Basta solo riferirsi ai numeri relativi alla quantità di quotidiani venduti in Germania, e già si resta molto colpiti se li si rapporta alla realtà italiana di oggi. Gli stessi numeri fanno anche comprendere quale fosse il coinvolgimento dei tedeschi nel Nazismo, riflettendo sull’incremento delle vendite di una delle maggiori e più feroci testate antisemite. Un altro elemento di interesse, è l’intuizione di Goebbels sulla televisione che vedeva gli albori proprio nella Germania nazista. Durante quella che fu una vera e propria guerra per il controllo della stampa, Joseph Goebbels (che era stato anche giornalista) scrisse: “Qualunque persona che abbia ancora un briciolo di onore dovrà fare molta attenzione prima di scegliere la profesione di giornalista” (14 aprile 1941) Al momento dell’ascesa di Hitler al potere, nel 1933, la Germania possedeva un sistema di informazione molto sviluppato: oltre 4700 tra quotidiani e settimanali venivano pubblicati ogni anno nel paese – più che in qualsiasi altra nazione industrializzata – con una circolazione totale di 25 milioni di copie. Nonostante Berlino fosse senza dubbio la capitale della carta stampata, la diffusione dei giornali era in effetti dominata dai piccoli editori locali, che possedevano circa l’81% dei quotidiani tedeschi. Inoltre, ben otto giornali, pubblicati in altrettante grandi città, avevano una reputazione di livello internazionale. L’industria cinematografica tedesca, poi, era tra le maggiori al mondo: i suoi film infatti venivano apprezzati ovunque all’estero e avevano aperto la strada allo sviluppo della radio e della televisione. Quando Hitler salì al potere nel 1933, i Nazisti controllavano meno del tre per cento dei 4.700 giornali tedeschi, ma l’eliminazione del sistema multi-partitico portò, da un lato, alla chiusura di centinaia di quotidiani prodotti dai partiti, ormai fuori legge, e dall’altro all’appropriazione, da parte dello Stato, delle tipografie e delle attrezzature appartenute ai partiti Social Democratico e Comunista. Quelle attrezzature vennero poi, in molti casi, semplicemente cedute al nuovo Partito Nazista. Nei mesi seguenti, inoltre, i Nazisti presero il controllo o estesero la propria influenza anche agli organi di stampa indipendenti. Durante le prime settimane del 1933, il regime innondò la radio, la stampa e i cinegiornali di notizie che dovevano alimentare la paura di una “insurrezione comunista”, canalizzando così i timori popolari e aprendo la strada alle misure politiche che abolirono le libertà civili e democratiche. Nel giro di pochi mesi, il regime nazista distrusse la stampa libera tedesca, così forte negli anni precedenti. In meno di dieci anni la casa editrice del Partito, la Eher, diventò la più grande mai esistita in Germania e il suo quotidiano principale, il Völkischer Beobachter raggiunse il milione di copie in circolazione. Il Völkischer Beobachter che Hitler aveva acquistato nel 1920, serviva anche a comunicare ai membri del Partito le date e i luoghi delle riunioni e altre notizie importanti, ma anche a estendere l’influenza del Nazismo ben al di là dei circoli nei quali si era formato. La diffusione del giornale crebbe di pari passo al successo del Movimento Nazista, raggiungendo le 120,000 copie nel 1931 e il milione e settecentomila all’inizio del 1944. Curato dallo scrittore antisemita e ideologo nazista Alfred Rosenberg, il Völkischer Beobachter era specializzato nella creazione di brevi e iperbolici slogan sui temi preferiti dai Nazisti: l’umiliazione subita con il Trattato di Versailles, la debolezza del parlamentarismo di Weimer, e la malvagità del mondo ebraico e del bolscevismo, che venivano messi in contrasto con gli ideali patriottici del Nazismo. Der Stürmer fu il giornale antisemita più conosciuto in Germania, diretto dal leader locale nazista [Gauleiter] Julius Streicher, ex-insegnante divenuto poi membro tra i più attivi del Movimento. Il giornale venne pubblicato per più di vent’anni, dal 1923 al 1945, e disseminò rozze storie su presunti crimini compiuti regolarmente dagli Ebrei, che andavano da “assassinii rituali”, a crimini sessuali e a truffe di carattere finanziario. Durante la Repubblica di Weimar, le affermazioni calunniose e oltraggiose riportate da Der Stürmer spesso spinsero sia personagggi politici che organizzazioni ebraiche – indignati dai contenuti di tali storie – a fare causa sia a Streicher che al giornale. Quando i Nazisti assunsero il controllo del giornale, però, l’importanza del quotidiano e del suo direttore crebbero in modo esponenziale e il numero di copie circolanti aumentò da 14.000 nel 1927 a quasi 500.000 nel 1935. Nonostante molti visitatori stranieri e anche molti tra i cittadini tedeschi – inclusi alcuni responsabili nazisti della propaganda – trovassero il giornale banale ed offensivo, Hitler si rifutò di chiuderlo, persino dopo che una Corte del Partito Nazista tolse a Streicher i suoi incarichi politici e di Partito perché riconosciuto colpevole di corruzione. Durante gli anni ’30, i Tedeschi potevano trovare Der Stürmer sui marciapiedi e agli angoli delle vie, in tutta la Germania. Streicher fece sistemare moltissimi distributori di giornali nelle strade per promuovere la sua propaganda antisemita e incrementare la circolazione del quotidiano. Per riempire tutti quei distributori e per poter onorare le sottoscrizioni, in alcune occasioni Streicher aumentò la tiratura a due milioni di copie. Nuovi Strumenti per la Propaganda: Cinema, Radio e Televisione I Nazisti compresero bene il potere che le tecnologie emergenti, come il cinema, gli altoparlanti, la radio e la televisione, avevano nel momento in cui venivano posti al servizio della propaganda, e specialmente la loro capacità di attrarre le masse. Quelle tecnologie offrirono infatti ai leader nazisti un mezzo senza precedenti per la diffusione di massa dei loro messaggi e della loro ideologia, nonché un veicolo per rafforzare il mito di una Volksgemeinschaft (Comunita’ Nazionale) attraverso la fruizione condivisa dei programmi. Dopo il 1933, la radio tedesca cominciò a portare i discorsi di Hitler direttamente nelle case, nelle fabbriche e, grazie all’uso di altoparlanti, persino nelle strade. I funzionari del Ministero della Propaganda guidato da Goebbels compresero subito il grande potenziale che l’uso della radio possedeva per i loro fini propagandistici. Così, il Ministero finanziò fortemente la produzione di “Apparecchi Radio per il Popolo” (Volksempfänger) poco costosi e quindi più facilmente acquistabili. All’inizio del 1935 circa un milione e mezzo di queste radio era già stato venduto, dando alla Germania uno dei pubblici radiofonici più vasti al mondo. In quello stesso anno, essa diventò anche la prima nazione a introdurre un servizio televisivo regolare. Il Ministro della Propaganda Joseph Goebbels non solo comprendeva assai bene il grande potenziale del nuovo mezzo di comunicazione per diffondere materiali propagandistici, ma pensava anche che le trasmissioni fossero più efficaci quando fruite collettivamente, come avviene al cinema e a teatro.

martedì 13 gennaio 2015

L'accoglienza intelligente e il dialogo con l'Islam (Enzo Bianchi)

"In che modo in Italia si può raggiungere l'integrazione dei musulmani? Per prima cosa il mondo cristiano deve attuare un'accoglienza intelligente. Negli ultimi anni troppe volte si è affrontato il problema con superficialità, usando semplici slogan del tipo "apriamo le frontiere e accogliamoli". Ma accoglierli veramente significa dare loro uno spazio, una soggettività, inserendoli nelle nostre strutture politiche, civili e sociali. Certo, è un'operazione che richiede tempi lunghi e soprattutto un'adeguata preparazione della gente e del territorio. Non si deve fare dell'Islam il nuovo nemico. Invece noi cristiani siamo da secoli abituati a vivere con un nemico all'orizzonte: prima il diverso, l'eretico, l'ateo, il comunista, adesso l'islamico. Indubbiamente l'Islam è una diversità, ma dipende da noi accoglierlo e farlo maturare nella modernità. Purtroppo fino ad oggi non è stato assegnato al mondo islamico nessun ruolo culturale e politico, né in ambito internazionale, né, cosa ancor più grave, nel bacino del Mediterraneo. Con il confronto, invece, si potrebbe impedire l'indurimento della loro identità religiosa, cioè il fondamentalismo. L'accoglienza intelligente passa attraverso il dialogo. Non dobbiamo avere paura del dialogo, perché il confronto con l'altro ci aiuta ad essere più consapevoli della nostra identità, anche da un punto di vista religioso. Il dialogo può aiutarci nella ricerca della verità, perché l'altro, con la sua diversità, ci fa approfondire il nostro essere cristiani. Non dimentichiamo che proprio la Chiesa cattolica ha inventato il dialogo interreligioso; e se oggi la Chiesa aspira ad essere una religione mondiale, deve farsi luogo di confronto, dove i vari integralismi e fondamentalismi si dissolvono, lasciando spazio alla ricerca comune della verità. Ma anche l'altro ha bisogno di un luogo proprio dove dialogare e pregare. E' certamente giusto costruire moschee nel nostro territorio, anche se proporzionalmente alla nostra capacità di accogliere intere comunità. Potrebbe essere utile anche per conoscere la loro fede, la loro cultura. In realtà noi oggi facciamo la nostra battaglia contro l'Islam senza sapere chi sono gli islamici. La gente li conosce solo attraverso degli slogan: sono quelli che hanno molte mogli, il marito è il capo e la donna non conta nulla. Questo non è conoscere l'altro.Il cristiano deve farsi pellegrino, sentirsi sempre come uno straniero. I cristiani hanno tanti modi di essere pellegrini: essi non hanno patria, ogni terra per loro è patria e questo li pone in una condizione continua di pellegrinaggio. E anche l'attesa del regno di Dio, della Gerusalemme celeste, li rende pellegrini in questo mondo Se noi approfondissimo di più la nostra qualità di pellegrini, vivremmo meglio nella compagnia degli uomini e riusciremmo a ricercare la verità nella dolcezza della carità". (E. B.)

domenica 11 gennaio 2015

Il pluralismo...apparente in una Società intesa come gruppo di appartenenza!

Un noto filosofo italiano ha scritto: "Pluralismo e multiculturalismo sono concetti antitetici…"1 Mi trovo perfettamente d’accordo con il Professor Sartori ma anche le nostre rispettive ragioni che sottendono a questo accordo sono antitetiche. Infatti secondo Sartori la fondamentale differenza intercorrente tra i due concetti consiste nel fatto che il pluralismo prende atto della differenza e la tollera riconoscendone, talvolta, il valore laddove il multiculturalismo ha come obiettivo il creare la differenza. Secondo me, invece, la differenza fondamentale è la seguente: il pluralismo ha come soggetti gli individui nella loro specificità di soggetti singoli, ciascuno con la propria etica e le proprie personali scelte di vita; il multiculturalismo ha come soggetti le cultura considerate come blocchi compatti ed omogenei, internamente indifferenziate. Il concetto stesso di Multiculturalismo incorre in un pregiudizio assai pericoloso: il "pregiudizio di omogeneità" 2: considerare le cultura anziché gli individui significa appiattire questi ultimi e non vederli nella loro concretezza e specificità. Le culture n non sono blocchi compatti ed omogenei privi di controversie e differenze al loro interno; all’interno di una medesima tradizione culturale i singoli esseri umani possono divergere non poco per scelte di vita che comportano, quindi, una minore o maggiore accettazione della cultura stessa e una minore o maggiore aderenza alle sue regole e ai principii che ne stanno alla base. Infatti all’interno di una tradizione culturale sicuramente non tutti faranno le stesse scelte di vita e alcune saranno più in sintonia di altre con i precetti tramandati e che si presume vengano condivisi. Non tutti occupano la stessa posizione e godono degli stessi diritti, ad esempio e questo comporta sicuramente un diverso approccio ed una diversa interpretazione della cultura stessa da parte degli stessi membri che vi appartengono (in modo più o meno volontario e consapevole). Secondo il professor Sartori pluralismo e tolleranza sono strettamente connessi; multiculturalismo e tolleranza, invece, si scontrano. Quanto una società può essere tollerante ed aperta senza snaturarsi? Questo il quesito di Sartori. Il mio, invece, è questo: la società ha forse una natura, ovvero un’essenza immutabile, statica e non suscettibile di cambiamento ed evoluzione? Se così fosse non ci spiegheremmo come mai non siamo più nella società dei tempi della pietra, come mai oggi utilizziamo un linguaggio diverso e strumenti diversi nella nostra quotidianità rispetto alla società vigente a quei tempi. Prima di tutto sono del parere che la società in sé non abbia una natura a prescindere dagli individui che la compongono: la società non esisterebbe senza i singoli componenti. Ogni componente ha in comune con tutti gli altri il fatto di appartenere alla razza umana ma ha anche moltissime peculiarità che lo distinguono da tutti gli altri. Dunque la natura non ha una natura omogenea, ma composita. In secondo luogo gli esseri umani sono continuamente soggetti al cambiamento, alla crescita, all’evoluzione e anche all’involuzione; ma, se la società è composta dai singoli esseri umani e se questi ultimi sono soggetti al cambiamento, perché non dovrebbe allora essere soggetta al cambiamento la società? Correrà forse il rischio di perdere la sua natura? Ma come potrebbe perderla se la sua stessa natura è data da quelli stessi individui che mutano continuamente? Insomma, mi sembra piuttosto chiaro che la tesi di Sartori, se interpretata in un’ottica liberale e pluralista (ottica che lui stesso afferma di adottare) non regge! Perché si teme che la società possa perdere la sua natura? Cosa s’intende con il termine "natura"? Cosa s’intende con il termine "società"? 1) "Natura" viene intesa come "essenza": ciò che rende quella determinata società così come è, uguale a se stessa e diversa da tutte le altre. La natura viene connotata dalle tradizioni, la religione, gli usi e costumi. 2) "Società" viene, a mio avviso, intesa come equivalente di "comunità": non più un’associazione libera e volontaria tra diversi individui, ma una sorta di gruppo di appartenenza che definisce la natura stessa, gli usi, i costumi e i comportamenti di quanti ne fanno parte. 1) Una natura così intesa è costringente per gli individui: viene prima l’essenza e solo dopo vengono gli individui; gli esseri umani diventano, in questa visione, meri accidenti dell’essenza su cui non hanno il minimo diritto o potere di intervenire. 2) Una concezione della società di questo tipo risulta essere altrettanto costringente in quanto figlia di una natura essenzialista e non soggetta a trasformazioni: gli individui non vengono visti nelle loro differenze e, quindi, non viene accolto il pluralismo reale ma solo un pluralismo apparente: le scelte di vita devono pur sempre rientrare nello spettro di possibilità accettato e consentito dalla società, la quale accoglie però solo ciò che è conforme alla sua natura essenzialista ed immutabile. Questa concezione della società precipita in una sorta di pluralismo guidato a priori, un pluralismo che deve essere anch’esso conforme all’essenza prestabilita, un pluralismo apparente insomma!

giovedì 8 gennaio 2015

La grande sfida

Per scacciare i fantasmi, liberarci dagli stereotipi, rifuggire da ogni inimicizia verso l’altro, lo sconosciuto misconosciuto, dobbiamo forse imparare che i musulmani non vanno ridotti alla loro sola dimensione religiosa, che sono un miliardo di persone nei due emisferi, non tutti credenti e praticanti, più orientali (oltre ai turchi: pakistani, afgani, indonesiani, filippini…) che non arabi. C’è un islam, ma i musulmani sono molti e diversi nel loro modo di esprimere la fede e nella varietà etnica e geografica: musulmani ultramoderni esistono accanto a credenti più tradizionalisti e ad altri indifferenti alla religione, accanto anche a fondamentalisti e a frange di fanatici terroristi, che prolificano soprattutto nell’humus dell’oppressione, nel misconoscimento della loro dignità e dei loro diritti. Questi ultimi, per uscire da una situazione vista come un’eterna prigione senza sbocco, sono pronti ad atti di terrorismo che noi giustamente condanniamo con forza, ma di cui non possiamo non ricercare l’origine e la dinamica. Questo è l’enorme spazio, la grande sfida che si apre davanti al dialogo: evitare di leggere le differenze, anche profonde, come scontro tra il bene e il male, rifuggire l’identificazione tra un islam astratto e l’incarnazione del male, rifiutarsi di demonizzare l’altro. Sono convinto che la stragrande maggioranza dei musulmani, credenti o no, sia profondamente a disagio di fronte agli appelli alla barbarie e agli atti di barbarie del fondamentalismo e sia disposta ad assumersi, nella propria realtà concreta, la responsabilità di testimoniare il rifiuto dell’islam a qualsiasi solidarietà con la barbarie. In questa faticosa lotta sappiano di avere al loro fianco i cristiani e tutti gli uomini di buona volontà.

giovedì 1 gennaio 2015

ODIO IL CAPODANNO (A. G. 1 Gennaio 1916 sull'Avanti )

Ogni mattino, quando mi risveglio ancora sotto la cappa del cielo, sento che per me è capodanno. Perciò odio questi capodanni a scadenza fissa che fanno della vita e dello spirito umano un’azienda commerciale col suo bravo consuntivo, e il suo bilancio e il preventivo per la nuova gestione. Essi fanno perdere il senso della continuità della vita e dello spirito. Si finisce per credere sul serio che tra anno e anno ci sia una soluzione di continuità e che incominci una novella istoria, e si fanno propositi e ci si pente degli spropositi, ecc. ecc. È un torto in genere delle date. Dicono che la cronologia è l’ossatura della storia; e si può ammettere. Ma bisogna anche ammettere che ci sono quattro o cinque date fondamentali, che ogni persona per bene conserva conficcate nel cervello, che hanno giocato dei brutti tiri alla storia. Sono anch’essi capodanni. Il capodanno della storia romana, o del Medioevo, o dell’età moderna. E sono diventati così invadenti e così fossilizzanti che ci sorprendiamo noi stessi a pensare talvolta che la vita in Italia sia incominciata nel 752, e che il 1490 0 il 1492 siano come montagne che l’umanità ha valicato di colpo ,ritrovandosi in un nuovo mondo, entrando in una nuova vita. Così la data diventa un ingombro, un parapetto che impedisce di vedere che la storia continua a svolgersi con la stessa linea fondamentale immutata, senza bruschi arresti, come quando al cinematografo si strappa il film e si ha un intervallo di luce abbagliante. Perciò odio il capodanno. Voglio che ogni mattino sia per me un capodanno. Ogni giorno voglio fare i conti con me stesso, e rinnovarmi ogni giorno. Nessun giorno preventivato per il riposo. Le soste me le scelgo da me, quando mi sento ubriaco di vita intensa e voglio fare un tuffo nell’animalità per ritrarne nuovo vigore. Nessun travettismo spirituale. Ogni ora della mia vita vorrei fosse nuova, pur riallacciandosi a quelle trascorse. Nessun giorno di tripudio a rime obbligate collettive, da spartire con tutti gli estranei che non mi interessano. Perché hanno tripudiato i nonni dei nostri nonni ecc., dovremmo anche noi sentire il bisogno del tripudio. Tutto ciò stomaca. Aspetto il socialismo anche per questa ragione. Perché scaraventerà nell’immondezzaio tutte queste date che ormai non hanno più nessuna risonanza nel nostro spirito e, se ne creerà delle altre, saranno almeno le nostre, e non quelle che dobbiamo accettare senza beneficio d’inventario dai nostri sciocchissimi antenati.