lunedì 13 gennaio 2020

MI STA A CUORE: Inno all'amore! A braccia aperte io ti cercherò ...

MI STA A CUORE: Inno all'amore!
A braccia aperte io ti cercherò
...
: Inno all'amore! A braccia aperte io ti cercherò nei giorni dove ti nasconderai... smantellerò confini al tempo ladro darò il mio so...
Inno all'amore!
A braccia aperte io ti cercherò
nei giorni dove ti nasconderai...
smantellerò confini al tempo ladro
darò il mio sogno ad una mongolfiera
guaderò il vento e nei giorni che restano
tu sarai il mio disordine mentale!
Ciottolo d'azzurro all'anulare...
una guglia svettante a cielo aperto
darai fuoco al mio grande archivio
di amari dati e di melanconie!
Avevo sete e tu con le tue mani
hai dato refrigerio alla mia bocca
recando acqua e il dire dei ruscelli...
le tue impronte lasciavano diamanti...
per la tua voce ne farò un diadema
e non permetterò che sulla riva
la risacca dello Jonio poi la spenga!
E annienterò quel mostro gigantesco
dell'assenza...della dimenticanza...
ritroverò e non sarà una sorpresa
quel capitolo scritto sulle dune
di un coro osannante bocca a bocca
e quel minuscolo fiore e le parole
che non scrissi e non ti dissi mai!
Ora mi basta solo il mio presente
l'interminabile tempo d'un sospiro
mi porterà con te...cadrà l'inverno
e faran festa il sole e le altre stelle!

domenica 1 aprile 2018

Il razzismo delle parole....pregiudizi e stereotipi nel corso dei secoli !



Inizierò con una citazione che mette bene in rilievo alcuni caratteri del razzismo inteso come odio e ostilità verso le minoranze, alimentati dalla paura e da secolari pregiudizi diffusi attraverso il linguaggio. Contro “la cainesca crociata, che in quest’epoca di retorica fratellanza si bandisce contro gli Zingari, stoltamente e impulsivamente, pel solo terrore di un nome, e per l’atavica credenza che essi siano ministri di malore” si esprimeva nel 1911, al primo Congresso di Etnografia italiana, il marchese Colocci, attribuendo la “caccia all’uomo” scatenatasi l’anno precedente in Puglia al fatto che in alcune regioni italiane con la parola “zingaro” si designava direttamente l’epidemia di colera, malattia da sempre evidentemente ritenuta conseguenza del contagio diffuso da questa odiatissima minoranza. La citazione é tratta dalla raccolta di saggi Razzismi (F. Angeli, 1991) ed è contenuta nel saggio di Leonardo Piasere.
Le parole sono pietre non solo perchè le si può scagliare contro gli altri come strumenti di discriminazione, ma anche perchè, se osservate nel contesto storico in cui nascono e si diffondono, rivelano idee, atteggiamenti e modi di sentire; seguendole, come fossero pietre miliari, si può osservare l’evoluzione, nel corso della storia, dei sentimenti di sospetto, di disprezzo o di vero e proprio odio verso coloro che appartengono ad altri popoli e ad altre culture, nonchè degli stereotipi e dei pregiudizi che portarono al razzismo propriamente detto, con la sua carica distruttrice in quanto negatrice dell’umanità del diverso. Come l’emarginazione sociale, così la depredazione, lo sfruttamento, la sottomissione dell’altro ai propri fini vengono facilitati e incoraggiati dalla sua svalutazione e diffamazione, e queste non possono che passare attraverso le parole o la rappresentazione iconica. Perciò anche la filologia può essere una disciplina utile alla comprensione di certe dinamiche sociali.
Le parole dell’odio trascinano con sè stereotipi formulati in particolari contesti storici, ma, come dice George Mosse, “il razzismo stesso è sopravvissuto e non è diminuito il numero di coloro che pensano secondo categorie razziali. Non vi è nulla di provvisorio nell’imperituro mondo degli stereotipi, ed è questa l’eredità che il razzismo ha ovunque lasciato”.
Mi son trovato qualche settimana fa a correggere un pur bravo studente che, nell’esporre una sua ricerca sul razzismo, lo definiva, ovviamente condannandolo, come una esasperazione e un esito violento della xenofobia. Un’idea forse abbastanza diffusa, che sembra però corrispondere al luogo comune secondo cui, essendo naturale la paura e la diffidenza verso gli stranieri, quando una società è costretta a ospitarne troppi, rischia inevitabilmente l’innescarsi di una reazione difensiva di tipo violento, definibile come razzismo. A parte il fatto, già rilevato nell’esposizione di quella ricerca, che spesso le più decise reazioni xenofobe vengono dai paesi che hanno una bassissima percentuale di stranieri tra la popolazione, ho obiettato ricorrendo a una definizione più corretta dei termini. Il razzismo è un attitudine al disprezzo e all’odio per le minoranze, che precede e sfrutta la xenofobia; un contrapporsi agli altri per definire la propria identità come superiore, offrendo una via d’uscita illusoria a rabbie e frustrazioni individuali e sociali. Forse, mi sono detta, non sarà superflua una analisi delle parole che sono state usate e che usiamo ancora per definire gli “altri”, inserendole nei contesti storici in cui sono state elaborate. Il libro di George Mosse, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto (Laterza, 1980) e quello di Riccardo Calimani, Ebrei e pregiudizio. Introduzione alla dinamica dell’odio (Mondadori, 2000) mi sono stati di aiuto in questa ricerca. Un altro autore che ha svolto analisi imprescindibili sul rapporto tra noi e “l’altro”, attraverso la storia e nel presente, è Tzvetan Todorov, in particolare con La conquista dell’America ( Torino, Einaudi, 1984) e La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà (Milano, Garzanti, 2009).
Nella mia analisi mi limiterò, e in modo schematico, alla storia europea, escludendo quella interna agli Stati Uniti e al Medio ed Estremo Oriente, anche perchè è di noi, dei nostri razzismi, che è necessario far memoria. A rileggere la storia, sembra che ogni progresso abbia comportato per contraccolpo un progressivo peggioramento, una sempre maggiore virulenza nella rappresentazione dell’altro come inferiore e/o pericoloso. Forse perchè tanto più le religioni e le filosofie affermano l’uguaglianza fra gli uomini e i loro diritti universali, tanto più grande diventa la necessità di trovare motivazioni sempre più estreme alla oppressione dell’altro, politicamente o economicamente motivata.

E a proposito del vocabolario riguardante il razzismo,non si tratta tanto di sostenere la pratica del linguaggio politicamente corretto, che molti rifiutano come una sorta di inutile e illegittima censura, quanto di essere consapevoli di come, nella storia, certe parole, talvolta apparentemente neutre o addirittura di origine “scientifica”, abbiano assunto un ruolo di facili strumenti di propaganda, molto efficaci e persistenti, purtroppo, nel diffondere sospetto e disprezzo, e nel fornire giustificazioni o paraventi ideologici non solo a ingiustizie e soprusi, ma anche a guerre, persecuzioni, segregazioni, genocidi.
Le parole dei Greci e dei Latini: Xénoi
da cui deriva il nostro “xenofobia”, ossia paura dello straniero. Già. Ma cosa intendevano in realtà i Greci con la parola xénos? Nella meravigliosa polisemia della lingua greca antica, questa parola non indica solo lo straniero, ma anche l’ospite e il nemico. Insomma, xénos è lo straniero che viene tra noi, verso il quale i Greci ritenevano di avere un dovere di ospitalità, imposto non solo da un costume o da un interesse, ma dalla stessa religione: l’ospite è sacro, protetto dagli Dei. O meglio, e qui sta il legame col significato negativo, sacro è il vincolo tra chi ospita e chi viene ospitato: tradirlo significa trasformare l’ospite in nemico. Non a caso, la guerra più famosa della mitologia greca, quella che ha ispirato la prima grande opera della letteratura occidentale, è scatenata dal tradimento di questo vincolo tra il re di Sparta Menelao e il principe troiano Paride, che, ospite presso di lui, gli porta via la moglie. Quel che ci fa paura dello straniero, che ce lo può rendere nemico, è che possa tradirci e offenderci, portandoci via qualcosa a cui teniamo. Non ci fidiamo, insomma, o ci fidiamo tanto poco da voler garantire il rapporto con lui con una sanzione religiosa, fallita la quale ricorriamo all’opzione violenta.
Non c’era però disprezzo, si direbbe, nel rapporto con lo xénos: Paride era visto al massimo come un principe più interessato all’amore e alla bellezza che alla guerra, un po’ effeminato, magari... C’è invece un’ambiguità che persiste, nel giudizio sullo straniero ospite: quel che si teme da lui è, forse più di ogni altra cosa (e qui interpreto e attualizzo ulteriormente), il suo potere seduttivo nei confronti degli elementi più deboli della nostra compagine sociale, fino alla paventata “perdita della nostra identità” : “ci rubano le donne” o “ci convertiranno alle loro usanze”. E’ come se li sentissimo più attraenti di noi, salvo giudicarli nello stesso tempo inferiori a noi per questo o quell’altro aspetto.
Agli stranieri più diversi per lingua, religione e cultura, i Traci o i Macedoni, ma anche i Persiani, che pure non erano nè rozzi nè arretrati, i Greci riservavano un’altra definizione: quella di
Barbari.
Era questa, in greco, una parola onomatopeica per indicare chi parlava una lingua diversa dal greco, pertanto non solo incomprensibile, ma sentita come un farfugliare, balbettare: al di là dell’incomprensione, traspare nel significato originario del termine un’intenzione derisoria, un certo disprezzo e sospetto di arretratezza, di inciviltà. Lo scontro con i Persiani fu certamente sentito come uno scontro di civiltà, nella quale era in gioco però soprattutto il confronto tra istituzioni politiche: i Greci sentivano le proprie come le sole degne di uomini liberi e rifiutavano con sdegno l’idea di prostrarsi dinnanzi a un re come facevano i Persiani. Fu grazie a questo orgoglioso attaccamento alla loro pur imperfetta democrazia che seppero unire le loro forze e vincere lo scontro con nemici tanto più potenti. Non credo si possa definire questo come disprezzo pregiudiziale. Tanto più che in seguito la grande civiltà ellenistica fu capace di integrare i “barbari” in un nuovo, fecondissimo, melting pot: il greco-macedone Alessandro Magno sposò una principessa persiana e adottò usanze fino ad allora disprezzate dai Greci, la scienza degli Egizi e dei Babilonesi incontrò la filosofia greca, e questo incontro portò il sapere antico alle sue massime vette. Ma di quanta carica negativa si sia impregnata poi la parola “barbari” nel corso dei secoli siamo tutti consapevoli.
In maniera speculare rispetto ai Greci, noi usiamo termini etnici, come ostrogoto o arabo, per indicare un linguaggio incomprensibile. Insomma, anche per noi, straniero e nemico è colui che non capiamo, che parla una lingua per noi sconosciuta. Non ci passa neanche per la mente che anche la nostra è incomprensibile per l’altro: quello che non capiamo è oscuro, genera sospetto, e soprattutto ci appare sgradevole per sua natura. La prospettiva è sempre etnocentrica: quelle che per i paesi germanici sono “migrazioni dei popoli” per noi sono “invasioni barbariche”. Inoltre, l’uso di quei termini rivela l’importanza che la lingua riveste nella definizione della nostra identità collettiva: non per nulla, la linguistica ha avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo non solo del nazionalismo, ma anche delle teorie propriamente razziste dell’Ottocento e del Novecento.
Stranieri
E’ proprio all’origine, latina, della parola “straniero”, o meglio alla sua area semantica, che dobbiamo rivolgerci per capire che la prospettiva da cui nasce è quella di una società chiusa nei suoi confini territoriali: la preposizione avverbiale extra, fuori, è infatti la radice comune delle parole “straniero”, “estraneo” e “strano”. Ma sì, lo straniero è strano perchè ci è estraneo! Certo, la stranezza può ingenerare anche curiosità, e magari anche meraviglia, ammirazione, e perfino venerazione (vedi il caso dei poveri Aztechi dinnanzi agli Spagnoli..). Possiamo osservare a questo proposito che, se è vero che la meraviglia derivante dall’isolamento si è rivelata rischiosa, senza la curiosità per quelli che stanno fuori dai nostri confini, o da fuori provengono, la storia umana non avrebbe fatto neanche un passo. In latino c’è distinzione tra externus (straniero), hospes (ospite), e hostis (nemico, ma anche esercito schierato). I Romani erano sempre pronti a trasformare in hostes i popoli confinanti, ma facevano anche abbastanza presto a trasformarli, dopo averli vinti e sottomessi, in alleati e in cittadini: la progressiva romanizzazione delle province fu talmente spinta che non solo due grandi imperatori del primo secolo, Traiano e Adriano, venivano dalla Spagna, ma tra la fine del primo e per tutto il secondo secolo diversi imperatori provennero dalle province africane o orientali, e il millenario della fondazione di Roma fu celebrato dell’imperatore Filippo l, detto l’Arabo perchè .. era proprio arabo, nato da uno sceicco nella provincia dell’ Arabia Petrea. Il suo volto fu eternato in un busto molto realistico ed espressivo che mostra i tratti marcati coi quali si intendeva sottolinearne non solo la personalità ma anche l’origine orientale .
Romani e barbari
Come dice Todorov parlando del presente, “la paura dei barbari rende il nostro avversario più forte”, ma soprattutto “rischia di trasformare noi in barbari”! Roma seppe costruire invece una civiltà duratura anche lasciandosi a sua volta conquistare dalla civiltà dei vinti, riconoscendone il fascino (Graecia capta ferum vincitorem cepit: dove a definirsi ferus, ovvero rozzo, selvaggio, era lo stesso romano vincitore..). I Romani adottarono dai Greci anche la parola “barbari”, usandola prevalentemente per indicare le popolazioni tribali ai loro confini settentrionali: ma anche a questi erano disposti a riconoscere virtù e caratteri positivi, come fece Tacito con i Germani. Furono poi la decadenza e la crisi interna all’impero a trasformare i popoli germanici in invasori inarrestabili e il loro appellativo latino in sinonimo di ferocia e motivo di terrore.
Osserviamo infine come, nel mondo antico, l’eventuale attribuzione di inferiorità ai popoli stranieri, la necessità di marchiarli con stereotipi negativi, appare come un fatto contingente, che ha valore finchè rimangono “esterni”. Ad essere segregati o ritenuti indegni di far parte della cittadinanza attiva erano semmai gli schiavi e le donne. Quanto ai primi, stranieri di solito anch’essi, provenienti dalle file dei nemici vinti, quando si trattava di individui istruiti e di elevata posizione sociale di origine, a Roma si ammetteva che potessero essere liberati, e in questo caso potevano raggiungere anche le vette dell’organizzazione sociale: quella dei liberti fu anzi negli ultimi secoli una classe privilegiata. Oggi, nel “villaggio globale” in cui viviamo, a sembrarci “straniero” dovrebbe essere ormai solo un marziano o un venusiano.. Ma sappiamo bene che non è così. Non lo è neanche dopo duemila anni dall’avvento del Cristianesimo, nel quale, proclama Paolo di Tarso, “non c’é più né giudeo né gentile, non c’é più schiavo né libero, non c’é più uomo né donna”. Eh, magari!
L’altro nel mondo cristiano medievale:
Pagani, miscredenti, eretici, infedeli
L’indubbio universalismo del messaggio cristiano rappresenta un immenso progresso nelle relazioni umane e sociali, davvero una “buona novella” per i diseredati e gli esclusi. Ma trattandosi di una uguaglianza basata sull’adesione ad un credo religioso, ben presto si trasforma in un nuovo, potente motore di esclusione e rifiuto della diversità, soprattutto quando il potere politico ne fa uno strumento di coesione interna. Quando a rimanere fuori dall’universo “cattolico” (che per definizione vuole abbracciare òlos, tutto quanto), quando a praticare gli ormai invisi culti politeistici saranno solo gli abitanti dei pagi, dei villaggi più sperduti, il termine “pagano” si caricherà dei significati negativi che ben conosciamo: immoralità, arretratezza, ignoranza. Verrà esteso nei secoli, con queste connotazioni negative, a tutti coloro che ancora ignorano o che rifiutano il Cristianesimo e che divengono perciò oggetto di discriminazione e persecuzione, oltre che di apostolato e di conversione, talvolta forzata. La tolleranza e il sincretismo resi possibili dalla civiltà ellenistico-romana, che dedicava nel suo pantheon un altare anche a un eventuale “dio sconosciuto”, tramontano definitivamente. Tralasciando il capitolo delle eresie e degli scismi, di quanto le religioni monoteistiche, fondendosi alle più diverse motivazioni economiche e politiche, divengano motivi di inimicizia fra gli uomini, sia al loro interno che al loro esterno, siamo drammaticamente testimoni anche oggi. L’odio verso gli infedeli, l’impegno a combatterli e distruggerli, che vengono presentati oggi da certa destra come prerogativa esclusiva del mondo islamico, hanno segnato per molti secoli anche la storia del Cristianesimo: che questo sia avvenuto in contraddizione col messaggio evangelico è certamente vero, ma, pervicacemente, questa verità viene agitata come motivo di disprezzo verso il mondo islamico e verso il Corano, accusato di essere necessariamente e ineliminabilmente portatore di violenza e arretratezza. Così, nel contesto di una convulsa e poco chiara crisi geopolitica, cresce l’esigenza di considerare gli “altri” non nella loro reale molteplicità e nelle loro differenti responsabilità, ma solo, nella logica amico/nemico, per la loro, anche supposta e perfino residuale, appartenenza a un diverso universo etnico, religioso e culturale. Si tratta, ovviamente, di un meccanismo speculare che coinvolge le minoranze piùfacili all’odio in entrambi i campi e che perciò si autoalimenta.

Ancor più complessa è stata la trasformazione della differenza/diffidenza religiosa in disprezzo, odio e persecuzione nel caso dei seguaci dell’altro e più antico monoteismo, ovvero i “perfidi”....Giudei !
Sia il nome che l’aggettivo che lo accompagnava, fin dal IX secolo, nelle preghiere della Messa del Venerdì Santo, non avrebbero avuto necessariamente una accezione o un’intenzione offensiva nei confronti degli Ebrei, in quanto li designavano come seguaci del giudaismo e non credenti nella fede cristiana (questo il senso di perfidi nella sua accezione più neutrale quale viene rivendicata dai cattolici a propria difesa). Per secoli, il buon popolo cattolico ha pregato per la conversione dei “perfidi Giudei”, ostinati nella negazione della divinità di Cristo. Non c’è però da sorprendersi se queste parole suonavano in realtà alle orecchie dei fedeli come un richiamo alla perfidia del traditore di Gesù: quanti sapevano, o sanno, che il Giuda che dà il nome alla terra e alla religione degli Ebrei non è il Giuda Iscariota dei Vangeli, ma l’innocente figlio di Giacobbe, capostipite di una delle tribù di Israele?
L' omicidio rituale
Ma il presunto malinteso si spiega anche col fatto che, fin dai primi secoli, gli apologeti cristiani si erano dedicati con tutte le loro forze alla diffamazione della religione giudaica e dei suoi seguaci, bollati coi peggiori marchi di infamia: gli scritti “adversus Iudeos” erano un vero e proprio genere letterario, dai toni decisamente violenti e truci, i cui autori non potevano che avere grande seguito, trattandosi di padri della Chiesa e santi come Girolamo, Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo. La storia delle accuse antigiudaiche è rivoltante, e affonda le sue radici in questa predicazione, oltre che nella necessità di additare al pubblico ludibrio nemici interni e capri espiatori nei momenti di crisi: dall’accusa di cecità nei confronti della Rivelazione cristiana (la Sinagoga viene rappresentata in opposizione alla Chiesa come una donna bendata) e di ostinazione nel non riconoscere il Messia, si passa a quella di ”deicidio” e alla demonizzazione (da intendersi qui in senso letterale: “strumenti del diavolo, ..sinedrio di demoni”, dice di loro Gregorio di Nissa; si riteneva che in loro fosse “penetrato uno spirito impuro”, esattamente come si dice a proposito di Giuda durante l’ultima cena, usando il termine con cui viene indicato nei Vangeli il demonio ). Libero corso dunque alle accuse di abominevoli pratiche delittuose: rapimenti e infanticidi, omicidi rituali, profanazione delle ostie, avvelenamento dei pozzi, diffusione della peste, cospirazioni. Fantasie possibili solo in un “oscuro” medioevo? Macchè! Esse sopravvissero all’affermarsi del razionalismo, soprattutto nelle campagne e nelle regioni più isolate e risorsero sempre più accese nel corso dell’Ottocento: fino ai primi decenni del Novecento nell’Europa Orientale si celebravano processi contro gli Ebrei con l’accusa di omicidio rituale.
Sempre la separatezza imposta con la ghettizzazione alimenta i sospetti: quella degli Ebrei in Europa non veniva attribuita all’ostilità cristiana, ma al loro ostinato rifiuto dell’assimilazione; anche le conversioni però diventavano motivo di nuova diffidenza e disprezzo: il termine marrani, con cui li si designava, è evidentemente dispregiativo. Non si tratta di una storia lineare e compatta, qualche pontefice o qualche predicatore prendeva ogni tanto posizione in loro difesa, ma la direzione prevalente è quella della discriminazione e della persecuzione, che ne era anche una conseguenza. Le limitazioni imposte alle comunità ebraiche residenti nei paesi cristiani servivano a rendere più difficile la tolleranza e a confermare il pregiudizio: dovendo subire il divieto di possedere la terra, e trovandosi ad essere gli unici cui era consentito il prestito ad interesse, vietato ai cristiani, i giudei diventano gli usurai e affamatori del popolo che anche la grande letteratura ci ha tramandato, dallo Schylok di Shakespeare, al Fagin di Dickens fino alla vecchia uccisa da Raskolnikov in Dostoevskij. Non era Giuda Iscariota tanto avido di denaro da tradire Gesù per trenta denari? Chi di noi non ha sentito almeno una volta usare la parola ebreo come sinonimo di tirchio, attaccato al denaro? E non sono ebrei i banchieri più potenti? Osserviamo a margine che, se nell’uso italiano, distinguiamo l’appartenenza religiosa da quella etnica, usando per la seconda solo il termine “ebreo”, nelle altre lingue europee il termine usato è sempre “giudeo”: jude, juif, jew.
Dovremmo essere consapevoli di come, nella storia, certe parole, talvolta apparentemente neutre o addirittura di origine “scientifica”, abbiano assunto un ruolo di facili strumenti di propaganda, molto efficaci e persistenti.
Col completamento della Reconquista cristiana della penisola iberica, concomitante con la scoperta dell’America, la Spagna inizia al proprio interno una pulizia etnica su base religiosa con l’espulsione dei musulmani e di duecentomila ebrei, costretti a rinunciare ai propri averi. Finisce per sempre l’età d’oro della convivenza che la Spagna musulmana aveva sostanzialmente assicurato per qualche secolo anche agli “altri”. Dagli ebrei convertiti che aspirassero a entrare in qualche corporazione o collegio professionale, in qualche istituzione civile o religiosa, si pretendeva che dimostrassero la “limpieza de sangre”, ovvero si indagava sui loro antenati per escludere che ci fosse in loro del sangue impuro, una ascendenza ebraica che avrebbe potuto rendere inefficace il battesimo ricevuto: per la prima volta, l’ebraicità diventa una questione di eredità biologica al di là dell’adesione ad una religione.
L’età moderna: ......Selvaggi, Negri e infine.. Bastardi!
Così l’inizio dell’età moderna è segnato dall’instaurarsi di nuovi “razzismi”. Sugli abitanti del Nuovo mondo si pratica da parte dei Conquistadores il più grande genocidio della storia, quello dei popoli Amerindi, sterminati dalla superiorità militare degli invasori, dalle malattie da essi diffuse e dalla fatica dei lavori forzati imposti agli sconfitti. La testimonianza del domenicano Bartolomè de Las Casas inchioda alle loro responsabilità “li Christiani” come autori di “immense stragi” e di infami soprusi nei confronti di gente “senza malizia nè doppiezza”, i cui comportamenti e le cui qualità umane appaiono ai suoi occhi come degne di ammirazione e rispetto. Ma la visione prevalente è quella di chi vede in loro degli “homunculi” e dei selvaggi, dediti a costumi contro natura, a sacrifici umani e culti idolatrici: da combattere e sottomettere, perciò. Tanto più che non tenevano in alcun conto quell’oro la cui brama era per gli Spagnoli e i Portoghesi il principale oggetto di desiderio nella conquista, insieme alla straordinaria fecondità e vastità delle terre. Non mancò chi pensò di spiegare e giustificare il terribile destino degli Indios identificandoli con i discendenti delle dieci tribù maledette di Israele che secondo la Bibbia si erano disperse per tutta la terra. Ebrei anche quelli, wath else?!
I Conquistadores
Quando la popolazione amerinda fu praticamente sterminata, non disponendo più di sufficiente manodopera servile, i proprietari di piantagioni ricorsero.. al mercato. Come è tristemente noto, l’Atlantico cominciò ad essere solcato non più da caravelle di esploratori e conquistatori, ma da navi cariche di africani catturati dai loro nemici o da furbi intermediari e venduti ai proprietari delle piantagioni americane: i quali, essendo buoni cristiani, dovettero cercare nei libri sacri una giustificazione a questa riduzione di altri uomini a merce a basso costo, priva di ogni diritto. Una giustificazione ancora una volta razzistico-religiosa: secondo la Bibbia, i diversi popoli della terra discendono dai tre figli di Noè, Sem, Cam e Japhet; gli africani sono i discendenti di Cam, il figlio maledetto da Dio per aver deriso il padre nella sua ubriachezza: la pelle nera e la destinazione alla schiavitù erano il risultato e il segno della maledizione divina. Ecco fatto: l’inferiorità dell’altro non poteva avere migliore legittimazione.
Questo genere di razzismo non impediva però la promiscuità sessuale, più o meno apertamente ammessa o tollerata: sia le donne dei “selvaggi” amerindi che quelle dei niggers, dei “musi neri”, non erano disdegnate dai coloni europei, tanto che il continente si popolò ben presto anche di meticci, il cui diverso grado di accettazione sociale dipendeva dal maggiore o minor grado di composizione “bianca” del loro patrimonio biologico ereditario. Soprattutto nelle colonie spagnole e portoghesi, vigeva una classificazione molto articolata e socialmente differenziata dei diversi tipi e gradi di incroci inter-razziali, la cui considerazione era però comunque quella riservata ai “bastardi”.
I miti più irrazionali hanno nutrito il razzismo e lo hanno cristallizzato in sterotipi negativi quasi indistruttibili.
L’età contemporanea:.....Primitivi e Brachicefali !
L’esplorazione e la colonizzazione dei continenti extraeuropei e l’interesse per i “primitivi” che li popolano incrementano gli studi antropologici, che da una parte sembrano ispirarsi al mito del “buon selvaggio”, dall’altro denunciano e sottolineano gli aspetti più inaccettabili dei loro costumi per i popoli ”civilizzati”. All’esotismo iniziale, che esprime una sorta di fatua curiosità verso le culture di paesi lontani, si sostituisce il bagaglio del disprezzo più o meno larvato e paternalistico che accompagna il colonialismo. Se prima l’Europa si assumeva il compito di convertire alla vera religione i selvaggi pagani, ora si assume quello di portare la civiltà ai “primitivi”: il termine, apparentemente neutro o solamente ambiguo, in realtà rappresenta il presupposto che legittima l’atteggiamento colonialista. Ad assumersi il compito di giustificarlo non sarà più la religione ma la scienza.
Le pseudoscienze nate tra la fine del diciottesimo e gli inizi del diciannovesimo secolo, fisiognomica e frenologia in primis, iniziano a stabilire connessioni necessarie tra l’aspetto fisico o la struttura del cranio e le caratteristiche intellettuali, psicologiche e morali degli individui. Inizia a crescere il dibattito sulle presunte caratteristiche psicofisiche delle “razze umane”, alle quali si attribuiscono influenze deterministiche nei confronti dei loro “destini” storici e dei loro comportamenti. Risultato di questo incredibile miscuglio ideologico: la classificazione delle presunte razze in una scala di minore o maggiore perfezione umana, nella quale i criteri estetici (colorito, alta o bassa statura, cranio allungato o schiacciato, naso camuso o “greco”, capelli crespi o meno) derivanti dall’apprezzamento di sè e dal disprezzo dei diversi da sè diventavano misure “scientifiche” della superiorità della propria “razza”. Così l’anatomista tedesco Blumenbach sosteneva che la razza caucasica fosse quella di Adamo ed Eva e le altre non fossero che una degenerazione di questa a causa del clima e dello stile di vita, e dichiarava apertamente: “Ho assegnato il primo posto al caucasico perchè questo gruppo rappresenta la razza più bella degli uomini.” Pur annettendovi , si spera, solo un’utilità di tipo descrittivo, ancora l’antropologia fisica accetta una classificazione delle caratteristiche somatiche basata su termini come caucasico o negroide. Come dicevo, tralascerò qui il troppo noto capitolo del rapporto coi “pellerossa”, che proseguì in termini ottocenteschi lo sterminio dei nativi americani, e quello troppo complesso coi “musi gialli”.
Il razzismo scientifico
In fondo alla gerarchia della bellezza fisica, alla quale veniva associata la nobiltà d’animo e la superiorità morale, venivano sempre “i neri della foresta”, definiti come più vicini alle scimmie che agli uomini da antropologi e presunti filosofi come Tyson, Camper o Meiners; i quali invocavano a sostegno di queste classificazioni misure antropometriche del cranio e dell’angolo facciale, distinguendo tra brachicefali, quelli col cranio schiacciato, e quindi col cervello piccolissimo, e dolicocefali, quelli col cranio allungato, i bianchi, noi! Saprà quell’onorevole leghista che paragonò un ministro della repubblica ad una scimmia di avere così illustri predecessori?
Semiti e Sottouomini (untermenchen)
Come ha mostrato George Mosse nel suo studio fondamentale sulle origini del razzismo”scientifico”, alle teorie pseudoscientifiche si sovrappose un ideale di perfezione estetica quale quello propugnato dal neoclassicismo sul modello dell’arte greco-romana, poi si aggiunse la ricerca romantica e nazionalistica delle “radici” nel passato mitologico dei popoli, e infine la linguistica con la sua classificazione delle “famiglie” delle lingue in indoeuropee e semitiche: è nel suo contesto che inizia a circolare il termine “ariano” contrapposto a “semitico”. Sull’onda di una inopinata infatuazione per la cultura dell’antica India, il sanscrito apparve come una lingua “perfetta” e i mitici Arii che la parlavano i rappresentanti di una civiltà superiore. Cresce un misticismo irrazionalista che da un lato si oppone allo scientismo, dall’altro ne accoglie tutte le suggestioni razziste: così anche il darwinismo e gli studi sull’ereditarietà vengono fraintesi e piegati alle logiche della superiorità/inferiorità razziale e a quella della purezza/degenerazione.
La purezza originaria venne ricercata da un lato in un utopico ritorno al passato e alla vicinanza alla natura, dall’altro nell’eugenetica: bisognava preservare la propria razza dalla contaminazione e dalla degenerazione. La lotta di classe venne trasformata in lotta fra le razze. Le razze “inferiori” e le categorie che venivano considerate degenerate vennero definite sottouomini, il che avrebbe reso più facile la loro eliminazione non in una lotta aperta, ma coi mezzi atroci che vennero approntati dalla “razza superiore”. L’accanimento sadico, la stessa idea di “soluzione finale” appaiono come l’esito di un odio covato troppo a lungo contro nemici che incarnavano un male quasi metafisico. Il solito perfido giudeo era ora accusato di inquinare la società, nella quale si era insinuato dopo l’emancipazione legale, col suo innato materialismo, che ne faceva sia un sovvertitore e un agitatore politico, sia un avido accumulatore di capitali a danno del popolo. La progressione delle accuse raggiunse il vertice con la teoria del complotto giudaico per dominare il mondo: il famigerato documento dei Protocolli dei Savi di Sion, un falso compilato nell’Ottocento dalla polizia zarista, fu rispolverato e aggiornato dal fascismo come complotto demo-pluto-giudaico-massonico. I razzisti hanno la curiosa prerogativa di alimentare l’odio con la percezione di sè come vittime di coloro che considerano inferiori a sé!
I protocolli dei Savi di Sion
Anche i complottisti dei nostri giorni hanno l’impudenza di rispolverare il fantasma dei Protocolli, per scagliarlo contro l’europeismo, il globalismo, il potere finanziario, e perfino le cosiddette “ondate” migratorie, tutto ciò, insomma, da cui ritengono derivi ogni male della nostra società: la loro bestia nera, il nemico che manovra a nostro danno non solo immensi capitali, ma anche enormi masse di pericolosi diseredati, è, guarda caso, un finanziere ebreo, l’ungherese Soros! La dinamica dell’odio è ripetitiva, e tende ad economizzare i propri mezzi: un bersaglio tradizionale può essere il più facile da accettare, a dispetto di quel che la storia ha mostrato! I miti più irrazionali hanno nutrito il razzismo e lo hanno cristallizzato in sterotipi negativi quasi indistruttibili: conoscerne e ricordarne l’origine forse può servire a percepire meglio i segnali d’allarme che il nostro confuso presente ci manda. Segnali sempre più evidenti di un rinascere del razzismo anche dopo la Shoah e il Porràimos. Di questi due termini, il secondo è il meno conosciuto, e non a caso, essendo quello che designa nella lingua delle stesse vittime lo sterminio nazista della minoranza più detestata da tutti, quella degli
Gli Zingari
Secondo il vocabolario on line Treccani, l’etimologia della parola è dal greco medievale atsingànos, intoccabile, nella accezione che ha il termine nel sistema castale dell’India, dalla quale si ritiene che originariamente gli tzigani o zingari provengano. Il saggio citato all’inizio ricorda che, nell’Europa ottomana, agli zingari venivano assegnati i compiti più ributtanti e lo stigma di immondi: cose che ovviamente si rinforzano reciprocamente. Lo stesso saggio, che pure è dei primi anni ’90, mostra un’impressionante serie di ordinanze di espulsione e di sgombero, ad opera delle autorità locali del nostro paese, dei cosiddetti campi nomadi, sempre situati nelle periferie e nei luoghi prossimi a discariche: tema sempre attuale per ogni nostra amministrazione cittadina, di qualsiasi orientamento politico. Il carattere della sporcizia è quello che accompagna e quasi definisce l’inafferrabile categoria dei nomadi, la cui complessità etnica e culturale è sentita come troppo sfuggente per essere degna di distinzioni. Più facile trattarli tutti in blocco come “popolo immondo”, portatore di degrado e restio ad ogni integrazione. Tanto pericolosi che, come dimostrano ricerche condotte in Inghilterra e in Francia, ma anche in Italia, su centinaia di testi scolastici, si ritiene necessario mettere in guardia i ragazzi contro quelli che un “onorevole” parlamentare ha definito durante un dibattito televisivo come “feccia dell’umanità”.
Le espulsioni degli zingari
Pericolosi, però, anche per il loro fascino oscuro e rovinoso, esaltato dalla letteratura, e perfino dal melodramma: chi non conosce Esmeralda e Carmen, le zingare ammaliatrici di Hugo e Mallarmé, o la “abietta zingara” Azucena, spia e rapitrice di bambini ne Il Trovatore di Verdi? Solita ambivalenza: come si potrebbe odiare l’altro se la sua inferiorità fosse priva di ogni potere? L’insulto razzista riferito alla sporcizia, come le ordinanze di sgombero per motivi di igiene, nasce dal fantasma del contagio, fisico e morale, che da sempre accompagna le minoranze sgradite: “ci portano le malattie”. Non parlerò, per concludere, del razzismo rivolto agli immigrati. Mi limito ad osservare che a sostegno dell’ostilità che viene aizzata contro di loro oggi non si chiama più solo la religione, ma la legalità: regolari/irregolari, aventi o non aventi diritto di asilo, clandestini! E i testi scolastici si uniscono al coro per tramandare alle nuove generazioni la parola dell'odio !
E X T R A .....F U O R I !
Nei miei ultimi anni d'insegnamento spesso sono stato costretto a correggere anche bravi studenti che,in qualche ricerca sul razzismo, lo definivano, ovviamente condannandolo, "una esasperazione e un esito violento della xenofobia". Un’idea forse abbastanza diffusa, che sembra però corrispondere al luogo comune secondo cui, essendo naturale la paura e la diffidenza verso gli stranieri, quando una società è costretta a ospitarne troppi, rischia inevitabilmente l’innescarsi di una reazione difensiva di tipo violento, definibile come razzismo. In quelle occasioni prima ricordavo ai miei allievi che spesso le più decise reazioni xenofobe vengono dai Paesi che hanno una bassissima percentuale di stranieri tra la popolazione, poi facevo ricorso a una definizione più corretta dei termini. Il razzismo è un' attitudine al disprezzo e all’odio per le minoranze, che precede e sfrutta la xenofobia; un contrapporsi agli altri per definire la propria identità come superiore, offrendo una via d’uscita illusoria a rabbie e frustrazioni individuali e sociali. Importanti sono:Il libro di George Mosse, Il razzismo in Europa. Dalle origini all’Olocausto (Laterza, 1980) e quello di Riccardo Calimani, Ebrei e pregiudizio. Introduzione alla dinamica dell’odio (Mondadori, 2000).
E' paradossale! Tanto più le religioni e le filosofie affermano l’uguaglianza fra gli uomini e i loro diritti universali, tanto più grande diventa la necessità di trovare motivazioni sempre più estreme alla oppressione dell’altro, politicamente o economicamente motivata!
Cosa intendevano i Greci con la parola xénos? Nella meravigliosa polisemia della lingua greca antica, questa parola non indica solo lo straniero, ma anche l’ospite e il nemico. Insomma, xénos è lo straniero che viene tra noi, verso il quale i Greci ritenevano di avere un dovere di ospitalità, imposto non solo da un costume o da un interesse, ma dalla stessa religione: l’ospite è sacro, protetto dagli Dei. O meglio, e qui sta il legame col significato negativo, sacro è il vincolo tra chi ospita e chi viene ospitato: tradirlo significa trasformare l’ospite in nemico. Non a caso, la guerra più famosa della mitologia greca, quella che ha ispirato la prima grande opera della letteratura occidentale, è scatenata dal tradimento di questo vincolo tra il re di Sparta Menelao e il principe troiano Paride, che, ospite presso di lui, gli porta via la moglie. Quel che ci fa paura dello straniero, che ce lo può rendere nemico, è che possa tradirci e offenderci, portandoci via qualcosa a cui teniamo. Non ci fidiamo, insomma, o ci fidiamo tanto poco da voler garantire il rapporto con lui con una sanzione religiosa, fallita la quale ricorriamo all’opzione violenta.
Non c’era però disprezzo nel rapporto con lo xénos: Paride era visto al massimo come un principe più interessato all’amore e alla bellezza che alla guerra, un po’ effeminato, magari... C’è invece un’ambiguità che persiste, nel giudizio sullo straniero ospite: quel che si teme da lui è, forse più di ogni altra cosa (e qui interpreto e attualizzo ulteriormente), il suo potere seduttivo nei confronti degli elementi più deboli della nostra compagine sociale, fino alla paventata “perdita della nostra identità” : “ci rubano le donne” o “ci convertiranno alle loro usanze”. E’ come se li sentissimo più attraenti di noi, salvo giudicarli nello stesso tempo inferiori a noi per questo o quell’altro aspetto.
Agli stranieri più diversi per lingua, religione e cultura, i Traci o i Macedoni, ma anche i Persiani, che pure non erano nè rozzi nè arretrati, i Greci riservavano un’altra definizione: quella di Barbari.
Lo scontro con i Persiani fu certamente sentito come uno scontro di civiltà, nella quale era in gioco però soprattutto il confronto tra istituzioni politiche: i Greci sentivano le proprie come le sole degne di uomini liberi e rifiutavano con sdegno l’idea di prostrarsi dinnanzi a un re come facevano i Persiani.In seguito la grande civiltà ellenistica fu capace di integrare i “barbari” in un nuovo, fecondissimo, melting pot: il greco-macedone Alessandro Magno sposò una principessa persiana e adottò usanze fino ad allora disprezzate dai Greci, la scienza degli Egizi e dei Babilonesi incontrò la filosofia greca, e questo incontro portò il sapere antico alle sue massime vette.
Noi oggi usiamo termini etnici, come ostrogoto o arabo, per indicare un linguaggio incomprensibile. Insomma, anche per noi, straniero e nemico è colui che non capiamo, che parla una lingua per noi sconosciuta. Non ci passa neanche per la mente che anche la nostra è incomprensibile per l’altro!
Extra, fuori, è la radice comune delle parole “straniero”, “estraneo” e “strano”. Lo straniero è strano perchè ci è estraneo! Certo, la stranezza può ingenerare anche curiosità, e magari anche meraviglia, ammirazione, e perfino venerazione (vedi il caso dei poveri Aztechi dinnanzi agli Spagnoli..). Ma comunque dovremmo ricordare che senza la curiosità per quelli che stanno fuori dai nostri confini, o da fuori provengono, la storia umana non avrebbe fatto neanche un passo.I Romani erano sempre pronti a trasformare in hostes(nemici) i popoli confinanti, ma facevano anche abbastanza presto a trasformarli, dopo averli vinti e sottomessi, in alleati e in cittadini: la progressiva romanizzazione delle province fu talmente spinta che non solo due grandi imperatori del primo secolo, Traiano e Adriano, venivano dalla Spagna, ma, tra la fine del primo e per tutto il secondo secolo, diversi imperatori provennero dalle province africane o orientali, e il millenario della fondazione di Roma fu celebrato dell’imperatore Filippo l, detto l’Arabo perchè .. era proprio arabo, nato da uno sceicco nella provincia dell’ Arabia Petrea. Il suo volto fu eternato in un busto molto realistico ed espressivo che mostra i tratti marcati coi quali si intendeva sottolinearne non solo la personalità ma anche l’origine orientale .Dai barbari del mondo antico allo schiavismo africano
Todorov parlando del presente,dice: “la paura dei barbari rende il nostro avversario più forte”, ma soprattutto “rischia di trasformare noi in barbari”! Roma seppe costruire una civiltà duratura, anche lasciandosi a sua volta conquistare dalla civiltà dei vinti, riconoscendone il fascino (Graecia capta ferum vincitorem cepit: dove a definirsi ferus, ovvero rozzo, selvaggio, era lo stesso romano vincitore!..).
Nel mondo antico, l’eventuale attribuzione di inferiorità ai popoli stranieri, la necessità di marchiarli con stereotipi negativi, appare come un fatto contingente, che ha valore finchè rimangono “esterni”. Oggi, nel “villaggio globale” in cui viviamo, a sembrarci “straniero” dovrebbe essere ormai solo un marziano o un venusiano.. Ma sappiamo bene che non è così. Non lo è neanche dopo duemila anni dall’avvento del Cristianesimo, nel quale, proclama Paolo di Tarso, “non c’é più né giudeo né gentile, non c’é più schiavo né libero, non c’é più uomo né donna”. Eh, magari!
L’indubbio universalismo del messaggio cristiano rappresenta un immenso progresso nelle relazioni umane e sociali, davvero una “buona novella” per i diseredati e gli esclusi. Ma trattandosi di una uguaglianza basata sull’adesione ad un credo religioso, ben presto si trasforma in un nuovo, potente motore di esclusione e rifiuto della diversità, soprattutto quando il potere politico ne fa uno strumento di coesione interna. L’odio verso gli infedeli, l’impegno a combatterli e distruggerli, che vengono presentati oggi da certa destra come prerogativa esclusiva del mondo islamico, hanno segnato per molti secoli anche la storia del Cristianesimo: che questo sia avvenuto in contraddizione col messaggio evangelico è certamente vero, ma, pervicacemente, questa verità viene agitata come motivo di disprezzo verso il mondo islamico e verso il Corano, accusato di essere, necessariamente e ineliminabilmente, portatore di violenza e arretratezza.
Fin dal IX secolo, nelle preghiere della Messa del Venerdì Santo, la parola Giudei non avrebbe avuto necessariamente un'accezione o un’intenzione offensiva nei confronti degli Ebrei, in quanto li designava come seguaci del giudaismo e non credenti nella fede cristiana.Ma il termine "Giudei" suonava,in realtà, alle orecchie dei fedeli come un richiamo alla perfidia del traditore di Gesù: quanti sapevano, o sanno, che il Giuda che dà il nome alla terra e alla religione degli Ebrei non è il Giuda Iscariota dei Vangeli, ma l’innocente figlio di Giacobbe, capostipite di una delle tribù di Israele?
Sempre la separatezza imposta con la ghettizzazione alimenta i sospetti: quella degli Ebrei in Europa non veniva attribuita all’ostilità cristiana, ma al loro ostinato rifiuto dell’assimilazione. Le limitazioni imposte alle comunità ebraiche residenti nei paesi cristiani servivano a rendere più difficile la tolleranza e a confermare il pregiudizio: dovendo subire il divieto di possedere la terra, e trovandosi ad essere gli unici cui era consentito il prestito ad interesse, vietato ai cristiani, i giudei diventano gli usurai e affamatori del popolo che anche la grande letteratura ci ha tramandato, dallo Schylok di Shakespeare, al Fagin di Dickens fino alla vecchia uccisa da Raskolnikov in Dostoevskij. Chi di noi non ha sentito, almeno una volta, usare la parola ebreo come sinonimo di tirchio, attaccato al denaro? E non sono ebrei i banchieri più potenti?
Con la Reconquista cristiana della penisola iberica, concomitante con la scoperta dell’America, la Spagna inizia al proprio interno una pulizia etnica su base religiosa con l’espulsione dei musulmani e di duecentomila ebrei, costretti a rinunciare ai propri averi. Finisce per sempre l’età d’oro della convivenza, che la Spagna musulmana aveva sostanzialmente assicurato per qualche secolo anche agli “altri”.
L’inizio dell’età moderna è segnato dall’instaurarsi di nuovi “razzismi”. Sugli abitanti del Nuovo mondo si pratica da parte dei Conquistadores il più grande genocidio della storia, quello dei popoli Amerindi, sterminati dalla superiorità militare degli invasori, dalle malattie da essi diffuse e dalla fatica dei lavori forzati imposti agli sconfitti. La testimonianza del domenicano Bartolomè de Las Casas inchioda alle loro responsabilità “li Christiani” come autori di “immense stragi” e di infami soprusi nei confronti di gente “senza malizia nè doppiezza”, i cui comportamenti e le cui qualità umane appaiono ai suoi occhi come degne di ammirazione e rispetto. Qualcuno poi pensò di spiegare e giustificare il terribile destino degli Indios, identificandoli con i discendenti delle dieci tribù maledette di Israele, che, secondo la Bibbia, si erano disperse per tutta la terra. Ebrei anche quelli!
Quando la popolazione amerinda fu praticamente sterminata,l’Atlantico cominciò ad essere solcato non più da caravelle di esploratori e conquistatori, ma da navi cariche di africani catturati dai loro nemici o da furbi intermediari e venduti ai proprietari delle piantagioni americane: i quali, essendo buoni cristiani, dovettero cercare nei libri sacri una giustificazione razzistico-religiosa: secondo la Bibbia, i diversi popoli della terra discendono dai tre figli di Noè, Sem, Cam e Japhet; gli africani sono i discendenti di Cam, il figlio maledetto da Dio per aver deriso il padre nella sua ubriachezza: la pelle nera e la destinazione alla schiavitù erano il risultato e il segno della maledizione divina. Ecco fatto: l’inferiorità dell’altro non poteva avere migliore legittimazione!
Questo genere di razzismo non impediva però la promiscuità sessuale : sia le donne dei “selvaggi” amerindi che quelle dei niggers, dei “musi neri”, non erano disdegnate dai coloni europei, tanto che il continente si popolò ben presto anche di meticci, il cui diverso grado di accettazione sociale dipendeva dal maggiore o minor grado di composizione “bianca” del loro patrimonio biologico ereditario.Con le pseudoscienze, nate tra la fine del diciottesimo e gli inizi del diciannovesimo secolo, fisiognomica e frenologia in primis, si cominciano a stabilire connessioni tra l’aspetto fisico o la struttura del cranio e le caratteristiche intellettuali, psicologiche e morali degli individui. Risultato di questo incredibile miscuglio ideologico: la classificazione delle presunte razze in una scala di minore o maggiore perfezione umana, nella quale i criteri estetici (colorito, alta o bassa statura, cranio allungato o schiacciato, naso camuso o “greco”, capelli crespi o meno) derivanti dall’apprezzamento di sè e dal disprezzo dei diversi da sè diventavano misure “scientifiche” della superiorità della propria “razza”. Così l’anatomista tedesco Blumenbach sosteneva che la razza caucasica fosse quella di Adamo ed Eva e le altre non fossero che una degenerazione di questa a causa del clima e dello stile di vita, e dichiarava apertamente: “Ho assegnato il primo posto al caucasico perchè questo gruppo rappresenta la razza più bella!".
In fondo alla gerarchia della bellezza fisica, alla quale veniva associata la nobiltà d’animo e la superiorità morale, venivano sempre “i neri della foresta”, definiti come più vicini alle scimmie che agli uomini da antropologi e presunti filosofi come Tyson, Camper o Meiners! Saprà quell’onorevole leghista che paragonò un ministro della repubblica ad una scimmia di avere così illustri predecessori?
Con la linguistica e con la sua classificazione delle “famiglie” delle lingue in indoeuropee e semitiche, inizia a circolare il termine “ariano” contrapposto a “semitico”. Il darwinismo e gli studi sull’ereditarietà vengono fraintesi e piegati alle logiche della superiorità/inferiorità razziale e a quella della purezza/degenerazione!
Si cominciò a dire che bisognava preservare la razza ariana dalla contaminazione e dalla degenerazione. Le razze “inferiori” e le categorie che venivano considerate degenerate vennero definite sottouomini, il che avrebbe reso più facile la loro eliminazione non in una lotta aperta, ma coi mezzi atroci che vennero approntati dalla “razza superiore”. L’accanimento sadico, la stessa idea di “soluzione finale” appaiono come l’esito di un odio covato troppo a lungo contro nemici che incarnavano un male quasi metafisico. La progressione delle accuse raggiunse il vertice con la teoria del complotto giudaico per dominare il mondo: il famigerato documento dei Protocolli dei Savi di Sion, un falso compilato nell’Ottocento dalla polizia zarista, fu rispolverato e aggiornato dal fascismo come complotto demo-pluto-giudaico-massonico. I razzisti hanno la curiosa prerogativa di alimentare l’odio con la percezione di sè come vittime di coloro che considerano inferiori a sé!
E così i complottisti dei nostri giorni hanno l’impudenza di rispolverare il fantasma dei Protocolli, per scagliarlo contro l’europeismo, il globalismo, il potere finanziario, e perfino le cosiddette “ondate” migratorie, tutto ciò, insomma, da cui ritengono derivi ogni male della nostra società: la loro bestia nera, il nemico che manovra a nostro danno non solo immensi capitali, ma anche enormi masse di pericolosi diseredati, è, guarda caso, un finanziere ebreo, l’ungherese Soros! I miti più irrazionali hanno nutrito il razzismo e lo hanno cristallizzato in sterotipi negativi quasi indistruttibili: conoscerne e ricordarne l’origine forse può servire a percepire meglio i segnali d’allarme che il nostro confuso presente ci manda.
Poichè gli zingari spesso vivono nelle periferie e presso le discariche, il carattere della sporcizia è quello che accompagna e quasi definisce l’inafferrabile categoria dei nomadi, la cui complessità etnica e culturale è sentita come troppo sfuggente per essere degna di distinzioni. Più facile trattarli tutti in blocco come “popolo immondo”, portatore di degrado e restio ad ogni integrazione. Tanto pericolosi che, come dimostrano ricerche condotte in Inghilterra e in Francia, ma anche in Italia, su centinaia di testi scolastici, si ritiene necessario mettere in guardia i ragazzi contro quelli che un “onorevole” parlamentare ha definito durante un dibattito televisivo come “feccia dell’umanità”.
Pericolosi questi zingari anche per il loro fascino oscuro e rovinoso, esaltato dalla letteratura, e perfino dal melodramma: chi non conosce Esmeralda e Carmen, le zingare ammaliatrici di Hugo e Mallarmé, o la “abietta zingara” Azucena, spia e rapitrice di bambini ne Il Trovatore di Verdi? Solita ambivalenza: come si potrebbe odiare l’altro se la sua inferiorità fosse priva di ogni potere? L’insulto razzista riferito alla sporcizia, come le ordinanze di sgombero per motivi di igiene, nasce dal fantasma del contagio, fisico e morale, che da sempre accompagna le minoranze sgradite: “ci portano le malattie”. E non oso affrontare il tema-immigrati! Voglio solo osservare che a sostegno dell’ostilità che viene aizzata contro di loro oggi non si chiama più solo la religione, ma la legalità: regolari/irregolari, aventi o non aventi diritto di asilo, clandestini! E i testi scolastici si uniscono al coro per tramandare purtroppo alle nuove generazioni la nuova parola dell’odio

lunedì 5 febbraio 2018

IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO: IL GRANDE SIGNIFICATO DI UN'ADESIONE! (Terza Parte)



LA MILITANZA: LO SPIRITO DI SACRIFICIO,
LA LOTTA PER UN MONDO DI LIBERI E UGUALI,
LA GIOIA DI ESSERE!


La condizione nella quale vive il militante comunista è quella di «mobilitazione permanente» (Bellassai 2000, p. 50), di «iperattivismo» che significa «spirito di sacrificio, l’emulazione, l’anti-individualismo, l’attaccamento al partito, la serietà, sono i principali elementi che dotano di spessore etico-politico l’attività organizzativa» (Bellassai 2000, p. 50). Proprio lo spirito di sacrificio è ciò che fa sì che il militante sia un «comunista a tempo pieno» che dedica tutta la vita al partito, senza confondere mai «tra il suo essere comunista e l’aspirazione a “fare carriera nel partito”»11. E poi fondamentale è stata la convinzione diffusa fra i militanti di ogni livello, di essere parte di un unico movimento mondiale. E proprio questa convinzione, introiettata nella profondità delle coscienze private, ha avuto un’influenza determinante nel plasmare e uniformare gli aspetti più intimi della soggettività. Ciò è avvenuto per scelta e non per imposizione. I militanti hanno infatti scelto di lasciare entrare nella propria vita quotidiana quello che potremmo definire lo stile di vita comunista. Hanno insomma accettato di spostare l’asse dall’individuale al collettivo, dal singolare al plurale, decidendo di rinunciare ad alcuni segmenti della propria individualità – e della propria intimità: si pensi all’autocritica pubblica che i militanti erano costretti a fare in alcune occasioni particolari – per sentirsi pienamente parte di un processo storico. Come ha scritto Hobsbawm, riflettendo sulla sua militanza nel Partito comunista britannico, «il partito aveva un tale prestigio che riusciva a far fare cose che gli altri non avrebbero potuto chiedere» (Hobsbawm 2002, p. 153).
Ciò che conta, in una riflessione come quella che sto abbozzando, non è infatti se davvero i militanti siano diventati a tutti gli effetti parte del farsi storico. Ciò che conta è che la loro vita è stata plasmata volontariamente per sentirsi parte di una storia.
Ci sono però enormi differenze fra la militanza di chi aderisce ad un partito comunista che lotta in una società capitalistica per istaurare il socialismo e chi invece aderisce ad un partito comunista in un paese dove il socialismo, pur fra mille contraddizioni, è l’orizzonte esistenziale condiviso da tutti. Paradossalmente il fatto di sentirsi coinvolti in un movimento che vorrebbe rivoluzionare la società costituisce un elemento di coesione più forte che non il fatto di sentirsi parte di una comunità che l’ha già rivoluzionata. E in questo sentire comune è proprio quell’elemento dell’«iperattivismo», della continua tensione verso un obiettivo da raggiungere che tiene uniti, che uniforma gli stili di vita e le culture politiche e che crea una comunità, una sub-società. L’appartenere a questa comunità permette al militante di percepire come una grande libertà il fatto di privarsi di alcuni segmenti della propria libertà individuale in favore di una libertà collettiva che vale più di qualsiasi altra cosa, anche della propria realizzazione come individuo.
Questo è il tratto saliente che caratterizza e accomuna gli stili di vita e la cultura materiale dei comunismi europei.
Si è fatto cenno a come alcuni momenti della militanza siano scanditi da un calendario particolarmente fitto ma anche piuttosto invasivo della dimensione individuale e privata. Se da un lato si tratta di un retaggio della militarizzazione che ha segnato la nascita dei partiti comunisti europei, dall’altro è anche il prodotto di un sistema organizzativo che, in particolare in alcuni momenti del dopoguerra e segnatamente negli anni Cinquanta, è stato particolarmente rigido.
La vita dei militanti dentro il PCI è stata dunque tutt’uno con la vita del partito, con la sua storia. In particolare la vita di sezione è quella più intrecciata alle vicende della storia del comunismo, tanto da rifletterne le fasi: durante i momenti di maggiore tensione militante essa è il fulcro dell’azione del partito. È col passare del tempo, con la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, per non parlare degli anni Novanta, che essa perde smalto, così come lo perde il PCI. Negli anni del riflusso nel privato la sezione perde progressivamente il suo ruolo aggregatore e diviene soltanto più un luogo dove svolgere riunioni. Per poi approdare al drammatico biennio 1989-’91 che come un terremoto travolge le vicende dei partiti comunisti europei.
Guardare alle vicende minute dei partiti comunisti europei – e del PCI in particolare –, alle loro articolazioni locali, ai momenti di socialità politica nelle periferie consente di leggere la storia del comunismo fuori da schematismi semplificatori che altro non fanno che alimentare le mille retoriche sulla sua storia che si sono affollate negli anni.
Certo, i partiti comunisti europei, nella seconda metà del Novecento, ma ciò vale anche per il periodo precedente, hanno avuto significative differenze. Si tratta di differenze di linea politica, di struttura, di vicende, sebbene il Partito comunista italiano abbia rappresentato per tutti una sorta di modello, di punto di riferimento: si pensi che nel PCF c’era addirittura una corrente che cercava di «italianizzare» il partito. Eppure, nonostante queste differenze, le coordinate esistenziali dei militanti comunisti sono quasi sovrapponibili o, almeno, i punti di somiglianza sono molto più numerosi delle differenze.
Questo fenomeno può essere interpretato come un effetto della predominanza di una sorta di internazionalismo che potremmo definire «dal basso», sulla componente nazionale dei partiti comunisti: «La nostra cellula era una delle tante migliaia di Berlino, e delle centinaia di migliaia di unità di base della rete comunista di tutto il mondo» (Koestler 1991, p. 19), scrive Koestler.
Se le varie specificità nazionali hanno infatti prodotto linee politiche in molti casi sensibilmente diverse fra un partito e l’altro, il sentimento diffuso e profondamente radicato nei militanti di essere e di sentirsi parte di un’unica comunità mondiale, ha avuto l’effetto di uniformare gli stili di vita quotidiani dei militanti, fino a produrre un unico, globale, stile di vita comunista, che è il prodotto di una comune e globale cultura politica materiale. E questo stile di vita è il prodotto di una volontà di segnalare la propria appartenenza a una comunità politica attraverso una quasi completa fusione fra il privato e il pubblico, è il desiderio di sentirsi costruttori di quell’uomo nuovo che il comunismo voleva realizzare, partendo dall’individualità delle soggettività.
Col trascorrere del tempo ciò che era stato «una scelta di vita» diventa qualcosa di diverso, di molto meno totalizzante e di molto meno solido. Gioca un ruolo l’individualismo radicale che matura dopo il Sessantotto e fra gli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta i partiti politici perdono il significato sociale che avevano avuto durante il Novecento e ne assumono un altro molto più sfuggente, dai tratti indefiniti, mutevoli e incerti. Le comunità politiche si lacerano, dilaniate dalle spinte centrifughe dell’individualismo. Accade anche ai partiti comunisti che dovranno, di lì a poco, fare i conti con la fine di una storia, quella del cosiddetto socialismo realizzato, che durava da quel lontano 1917, che aveva rappresentato per più di una generazione di militanti non soltanto un evento fondativo e un mito, ma un fulmine che in pochi istanti aveva incenerito la loro vecchia vita e ne aveva fatta nascere una nuova, all’insegna del comunismo.
La militanza, così come l’ho intesa in questo intervento, è stata il prodotto di una cultura politica materiale che è un fenomeno pienamente novecentesco. E ha attraversato tutto il secolo con caratteristiche ben definite. Come hanno scritto Toni Negri e Michael Hardt «in questo lungo periodo [il Novecento], l’attività del militante consisteva, prima di tutto, in pratiche di resistenza contro lo sfruttamento capitalistico in fabbrica e nella società. Essa consisteva inoltre (attraverso, ma anche oltre la resistenza) in una costruzione collettiva e nell’esercizio di un contropotere capace di destrutturare il potere capitalistico e di contrapporgli un programma alternativo di governo» (Hardt - Negri 2002, p. 380). Ma la militanza novecentesca e, quindi, la cultura politica materiale che la sostanziava, non ebbero solo come orizzonte d’azione la lotta politica per creare «un mondo di liberi ed eguali». Esse furono anche capaci di «contrapporre la gioia di essere, alla miseria del potere» (Hardt - Negri 2002, p. 382).

IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO DOPO IL 1945...IL GRANDE SIGNIFICATO DI UN'ADESIONE!(Prima Parte)


(Prima parte)
Il 1945 stabilisce, nella cronologia del movimento comunista europeo, uno spartiacque. Come ha scritto Donald Sassoon «i venti radicali sollevati dalla guerra, e sulla cui forza i comunisti occidentali avevano puntato per il loro futuro politico, si erano placati» (Sassoon 2000, p. 128). È la prospettiva della rivoluzione, che, dopo il 1945, assume tratti molto meno marcati che nel periodo precedente. Essa diventa un obiettivo rimandato a data da destinarsi, una sorta di miraggio finale, spostato a un futuro non definibile con precisione. È per questo che, in un lasso temporale ridotto, i partiti comunisti europei mutano le proprie strutture organizzative, cambiando la loro natura di partiti di avanguardia, composti da un numero ridotto di militanti militarizzati e organizzati in gruppi ristretti, a partiti di massa, con migliaia – milioni – di iscritti e con una disciplina più allentata. Questo passaggio epocale produce ovviamente un mutamento delle coordinate di vita dei militanti comunisti e ne riplasma la quotidianità.
Prendiamo ora in esame alcuni aspetti concreti della militanza comunista. Innanzi tutto la formazione dei giovani, il loro cosiddetto reclutamento.
Col trascorrere del tempo, ossia col passaggio dalla clandestinità al lavoro politico alla luce del sole, i partiti comunisti occidentali – PCI e PCF in testa – smettono di concepire il lavoro fra le masse giovanili come uno strumento di irreggimentazione e tendono piuttosto a concepirlo come mezzo per organizzare i giovani in una comunità politica – quella delle Federazioni giovanili comuniste – tendenzialmente meno rigida di quella del partito e più «laica». Le Federazioni giovanili diventano, quindi, dopo essere state durante il periodo della clandestinità un bacino di militanza dal quale attingere, un luogo politico nel quale affinare la propria adesione al comunismo, uno spazio in cui coniugare gli aspetti formativi con quelli della ricreazione. Un luogo, insomma, nel quale sedimentare e strutturare la scelta individuale di diventare comunisti.
|Si veda C. Pennentier - B. Pudal, Du parti bolscevic au parti stalinien, in M. Dreyfus et al. (2000)|.
Va però notato che, anche nella memorialistica di coloro che sono diventati comunisti, si possono individuare almeno due differenti letture autobiografiche dell’ingresso nel partito. Una è quella che ci viene dalle memorie di Giorgio Amendola, che significativamente sono intitolate "Una scelta di vita" (Amendola 1976), l’altra è invece quella che si può intravvedere nell’autobiografia di un altro comunista italiano, meno importante di Amendola, Paolo Robotti, che, in linea con una sorta di determinismo, che molto spesso innerva le narrazioni autobiografiche dei militanti della generazione che potremmo definire terzinternazionalista, intitola la sua autobiografia "Scelto dalla vita "(Robotti 1980). Si tratta della testimonianza di una diversa concezione del ruolo della propria soggettività, che induce alcuni militanti a considerarsi come dei «granelli di sabbia trasportati dal grande vento della storia» (Andreucci 2005, p. 240), pur rendendosi protagonisti di un fatto come l’adesione ad un partito comunista che, come ha scritto Ignazio Silone, «non era da confondersi con la semplice iscrizione a un qualsiasi partito politico. Per me, come per molti altri, era una conversione, un impegno integrale» (Silone 1965, p. 81 e Andreucci 2005, p. 241), una vera e propria «seconda nascita», hanno scritto Pennentier e Pudal riguardo al PCF.
Esiste anche una raccolta di testimonianze di diciotto dirigenti del PCI, proprio riguardo la loro scelta.
Innanzitutto c’è chi aderisce per tradizione familiare; chi invece diventa comunista dopo essere venuto a contatto con militanti di partito nei luoghi di lavoro, dove gli individui sperimentano personalmente lo sfruttamento; c’è invece chi sceglie di aderire al partito perché condivide la piattaforma ideale e la concezione del mondo e della storia contenuta nel suo apparato ideologico. Lungo queste linee si distribuiscono tante storie individuali, diverse le une dalle altre, ma in fondo facilmente catalogabili sotto le insegne di queste tre tipologie.
Nelle ricostruzioni autobiografiche questi tre momenti tendono però ad essere fusi in un’unica spinta verso il comunismo. Se Maurice Thorez non esita a descrivere il processo che lo avrebbe condotto alla militanza come un «éveil» (Thorez 1960, pp. 7-42), il vicesegretario del PCI Pietro Secchia – classe 1903 –, il cui avvicinamento al comunismo avviene più per adesione ideologica alla piattaforma politica delle organizzazioni del movimento operaio che non per altre vie, tende comunque, nelle sue ricostruzioni autobiografiche, a calcare la mano su altri aspetti, quali, appunto, l’aver scelto il comunismo come risposta alle ingiustizie subite e allo sfruttamento patito da sé o dalla sua famiglia.
Si tratta della volontà, più o meno inconscia, di rappresentare la propria singola esperienza all’interno di una griglia interpretativa classica che si fonda sul determinismo storico più spinto: patito lo sfruttamento di classe, l’approdo al comunismo diventa uno sbocco naturale, frutto della presa di coscienza della propria condizione, del disincanto. È, insomma, il tentativo di inserire la propria esperienza personale in una storia che corre inesorabilmente verso il socialismo. Spesso l’adesione è mediata da quello che Koestler chiama un «apostolo», una sorta di mentore, qualcuno che svolge contemporaneamente il ruolo di persuasore e di risolutore di dubbi (Koestler 1990, p. 277).