lunedì 7 dicembre 2015

I Promessi Sposi? Ecco cosa succede quando li rileggiamo da adulti !

I promessi sposi partono male. Essere un testo scolastico squalifica, annega nell’astio la sua bellezza,.. eppure anche così lo adoravo. La geniale ironia, l’eterna modernità della grida manzoniane: ogni periodo storico ha avuto le sue ed è difficile leggere il libro senza pensare che sia stato scritto il pomeriggio prima. Mi venivano le lacrime agli occhi ogni volta che leggevo della madre di Cecilia che mette la sua bambina sul carro dei monatti, con il suo vestitino pulito in mezzo alle membra scomposte dei cadaveri buttati. La potenza visionaria di quella compostezza, in mezzo al caos, rendono quelle pagine tra le più belle della letteratura mondiale. Pochi tradimenti hanno l’ovvia meschinità e il livido squallore della morte di Don Rodrigo. Ma se la morte del signorotto era spettacolare, la sua vita mi lasciava perplesso: consideravo un non senso narrativo.... l’infatuazione per Lucia, che sicuramente era tanto carina, ma aveva il fascino di una gallina lessata, e soprattutto consideravo un non senso narrativo l’espediente usato, ovvero mandare i bravi al parroco. Se gli stessi bravi Don Rodrigo li avesse mandati a rapire Lucia , tutto si sarebbe risolto. Per qualcuno che disponga di bravi, anche il problema del fidanzato diventa irrilevante, faccio ricorso a una nota regola della medicina psicosomatica che afferma che quando a qualcuno vengano fratturate le gambe, tibia e perone bilateralmente, si calma immediatamente. Un’altra strada sarebbe stata eliminare Renzo mediante falsa accusa: abigeato , aver sputato nell’acqua santa, o altro e dopo di che sommergere Lucia e soprattutto Agnese, di sete , merletti, ori, capponi, visoni veri o fasulli, a seconda del livello di coscienza animalista o biglietti di crociera, con accurata eliminazione dell’isola del Giglio. Di tutte le strategie seduttive o di prevaricazione, mandare i bravi dal parroco sembra la più platealmente scema. D’accordo permette una scena geniale, chi il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare, ma è veramente il minimo risultato con il massimo sforzo, un’ evidente corsa verso il disastro. E poi non funziona lei, Lucia, la negazione dell’eroina adolescenziale post moderna. È stato decenni dopo, mentre studiavo la storia e la psicologia dei totalitarismi genocidari, dalla Vandea ad Auschwitz, passando per l’Ucraina, che la genialità della trama de I Promessi Sposi finalmente si è illuminata nella mia mente, ha scintillato di luci dorate come i fuochi d’artificio la notte di Capodanno. Violentare Lucia non dà nessuna soddisfazione. Rodrigo vuole corromperla. È la sua anima che vuole. Oltretutto il sado senza il maso non è molto divertente, si sprofonda nella noia. Non 50 sfumature di noia, ma un unico blocco grigiastro duro e puro. Don Rodrigo sa già che Lucia è incorruttibile. Lo sa perché Lucia ha qualcosa di luminoso nel sorriso e nello sguardo ed è quello che Rodrigo deve abbattere, proprio perché è quella luce che ama. L’uomo distrugge ciò che ama di più , quando non può averlo. Rodrigo deve abbattere Lucia ma né l’oro né la violenza possono riuscirci. Rodrigo fa la cosa ovvia: attacca la Chiesa, la profana nelle vesti di un ometto vile che si nasconde nell’abito sacerdotale per mascherare la sua paura. Lucia deve restare isolata dalla sua etica per crollare. Il signorotto agisce esattamente come tutti i totalitarismi quando aggredisco un popolo.... ne aggrediscono la religione, la ridicolizzano, la corrompono. Don Rodrigo fa un’azione sensata per corrompere Lucia ed è ovvio che la voglia perché Lucia in realtà è una creatura straordinaria, con il suo coraggio indomabile, la sua dolcezza invincibile. Lucia è Antigone, è la ragazza della Rosa Bianca che si batte contro Hitler, Lucia è il ragazzo cinese che ferma il carro armato. Lucia è il coraggio dell’integerrimo . Lucia Mondella for president.! (S.D.M.)

sabato 28 novembre 2015

MI STA A CUORE: Come sarà la quarta rivoluzione industriale....rip...

MI STA A CUORE: Come sarà la quarta rivoluzione industriale....rip...: Ripensare le fabbriche con il digitale: è questo il cambiamento che lancia la sfida sulla competitività Il primo obiettivo è prevedere i gu...

Come sarà la quarta rivoluzione industriale....ripensare le fabbriche con il digitale !!!

Ripensare le fabbriche con il digitale: è questo il cambiamento che lancia la sfida sulla competitività Il primo obiettivo è prevedere i guasti improvvisi che bloccano le catene di montaggio e causano gravi perdite economiche. Così, grazie ai bit, la fabbrica diventa intelligente È l’ora di portare Internet nelle fabbriche. Che non vuol dire consentire agli operai di usare Facebook o Whatsapp durante l’orario di lavoro. Vuol dire ripensare le fabbriche con il digitale. E quindi ripensare il modo in cui gli oggetti vengono progettati (su un computer, ovviamente); i primi prototipi realizzati (con una stampante 3D, per esempio); la catena di montaggio monitorata in tempo reale per prevenire guasti tecnici (con dei sensori, molto spesso); i prodotti distribuiti e seguiti nel loro viaggio fino al punto vendita (con dei semplici bollini a radio frequenza, per intenderci); e i comportamenti dei consumatori analizzati in tempo reale (attraverso quello che dicono sui social network, di solito: una messe di dati che servono a capire il gradimento effettivo, eventuali criticità e quindi ricominciare il giro, progettando nuovi prodotti). Questa rivoluzione è già iniziata e si chiama Industry 4.0 (in Italia, Fabbrica 4.0). È iniziata non a caso in Germania, paese leader in Europa della manifattura. Perché la novità è tutta qui: il digitale non serve più solo a creare prodotti e servizi digitali (siti web e applicazioni per intenderci), ma oggetti. È il mondo dei bit che entra in quello degli atomi per renderlo più efficiente, produttivo, competitivo. Insomma, ridare slancio all’economia e alla crescita stitica di questi anni. Perciò se il capo di un grande gruppo industriale in Italia vi dicesse — come spesso in effetti dicono — “che mi importa di Internet, io faccio navi”. O auto. O rubinetti. O qualunque altra cosa. Raccontategli la storia dell’Internet dell’industria, che dopo l’Internet delle persone — il world wide web — e l’Internet delle cose — il forno che parla al frigo, per intenderci — , è arrivato per cambiare non solo il modo in cui lavoriamo, ma anche restituirci la prosperità perduta. Non si tratta solo di slogan. Il digitale invece di rottamare le fabbriche (come qualcuno aveva frettolosamente predetto immaginando un mondo in cui chiunque ormai può farsi una fabbrica in casa o in garage), gli può dare nuova vita. L’esempio più eclatante è forse quello delle stampanti 3D, considerate all’inizio come un oggetto quasi fantascientifico e poi diventate bandiera dei makers e degli artigiani digitali che inventano nuovi prodotti. Ecco, quelle stampanti, che realizzano un oggetto aggiungendo dei materiali invece che sottraendoli (additive manufacturing), portate in fabbrica, consentono di avere dei prototipi con tempi e costi infinitamente ridotti rispetto al passato; e anche, in qualche caso, di realizzare componenti complessi finiti. Per esempio parti dei motori degli aeroplani sono già fatte così e nel 2020 General Electric prevede di realizzare 100 mila pezzi l’anno in questo modo riducendo il peso di ogni singolo aereo di oltre 400 chilogrammi (e quindi abbattendo il consumo di carburante). Ma uno dei vantaggi più clamorosi della Fabbrica intelligente sarà l’obiettivo “zero downtime unplanned”: cioé il fatto che non accadrà più che la catena di montaggio si fermi per un guasto improvviso visto che una rete fittissima di sensori — il cui costo ormai li rende alla portata di tutti — avviserà in tempo reale i tecnici di una rottura in vista. Perché è importante? Secondo uno studio di General Electric, il 10 per cento dei voli in ritardo dipendono da guasti imprevisti, un problema che ci costa circa 8 miliardi di euro l’anno senza contare il disagio e lo stress di chi viaggia. Per i nostri figli questo problema non esisterà. Ecco perché la storia appena cominciata è importante per il nostro futuro. In estrema sintesi, è questa. Alla Fiera di Hannover, il più grande appuntamento mondiale di tecnologia industriale, nel 2011 per la prima volta si è parlato della necessità di “computerizzare la manifattura” usando il termine Industry 4.0, diventato poi un mantra; l’anno seguente un gruppo di lavoro guidato dai massimi rappresentanti dell’industria tedesca (Bosch, Siemens, Deutsche Telekom, SAP), ha presentato un pacchetto di raccomandazioni al governo e nel 2013 sono state pubblicate le considerazioni finali. Che in sostanza dicono questo: la prima rivoluzione industriale nasceva dall’acqua e dal vapore nei sistemi di produzione; poi è venuta l’energia elettrica; infine Internet. Ora siamo nella quarta rivoluzione industriale, ovvero in quel tempo in cui il confine fra il mondo fisico e il digitale sparisce. L’era in cui i bit governano gli atomi. E la fabbrica diventa intelligente. Se vi sembra che tutto ciò assomigli molto alle profezie dell’economista e futurologo americano Jeremy Rifkin, non siete lontani dal vero. Siamo in quel mondo lì, ma dalle visioni siamo passati alla politica industriale: Industry 4.0 è uno dei pilastri della Germania della Merkel (200 milioni di euro il budget iniziale); negli Stati Uniti di Obama è stata attivata una Smart Manufacturing Leadership Coalition, che mette allo stesso tavolo università, centri di ricerca e grandi aziende per creare standard condivisi; e nel Regno Unito è da poco partito un progetto simile denominato, con una certa ambizione, Catapult. E in Italia? Stiamo muovendo solo adesso i primi passi. Eppure già nel 2012, piuttosto silenziosamente, era partito il Cluster per la Fabbrica Intelligente che vede già 300 associati, quasi tutti al nord. Insomma, in qualche modo ci siamo anche noi, anche perché, come sostiene il gran capo della Direzione della Commissione Europea sul digitale, Roberto Viola, “essendo l’Italia un paese manifatturiero, questa partita non la possiamo giocare per stare a metà classifica, dobbiamo batterci per lo scudetto”. Visti i ritardi colossali che come paese abbiamo sulla diffusione della banda larga e l’adozione del digitale, l’obiettivo è perlomeno sfidante. Ma vale la pena di provarci. Secondo un recente studio degli economisti di Prometeia, l’effetto delle stampanti 3D sulle piccole imprese artigiane vale una crescita record del fatturato, stimata attorno al 15 per cento. C’è ovviamente un problema di competenze e di nuove professionalità (non a caso il Ministero dell’Istruzione ha promosso il cluster italiano): l’ingegnere meccanico digitale e l’analista di big data da qualche parte dovranno formarsi. Ma il mondo che c’è in vista non è una fabbrica senza persone, garantisce il capo dell’ufficio studi mondiale di General Electric, Marco Annunziata. Non dovremo fare una gara con le macchine per salvare il posto di lavoro, ma imparare a lavorare con le macchine per lavorare meglio: «Per usare la metafora di un film, non stiamo andando verso Tempi Moderni di Chaplin, ma piuttosto verso Iron Man ! (R.L.)

mercoledì 18 novembre 2015

MI STA A CUORE: E se cominciassimo a eliminare le periferie?

MI STA A CUORE: E se cominciassimo a eliminare le periferie?: Diventa in questi giorni sempre più aspro....talvolta anche violento.....il confronto tra i cosidetti "buonisti" e i cosidetti &qu...

E se cominciassimo a eliminare le periferie?

Diventa in questi giorni sempre più aspro....talvolta anche violento.....il confronto tra i cosidetti "buonisti" e i cosidetti "oltranzisti" a proposito delle vicende terroristiche che insanguinano questo nostro tempo, mietendo tante vittime innocenti. Non entro nel merito delle disquisizioni sulla geopolitica che ha condotto alla proliferazione del terrorismo nel mondo ma mi sembra che ,alla base del fenomeno, ci sia un quadro mondiale di forte instabilità non solo politico-economica ma anche e soprattutto determinata dalle condizioni di particolare emarginazione sociale che riguardano milioni di persone nel nostro pianeta.. E a tal proposito potremmo far entrare nelle nostre riflessioni l'analisi di talune espressioni linguistiche ,che hanno fatto capolino nel racconto sull'identità dei terroristi, che in questi giorni hanno dato l'assalto a Parigi e alla Francia. Un luogo comune sulla identità dei terroristi vuole indicarli come islamici...ma sappiamo che si tratta appunto di un luogo comune. Personalmente continuo ad essere attratto dall'espressione "giovani dei sobborghi"....parigini, di Bruxelles....di Amsterdam.....di Londra. I sobborghi sono quartieri "sub borgo" cioè fuori....fuori dalla città....fuori dalla convivenza della città....in "periferia". Non stiamo parlando di giovani che provengono dal Medio-Oriente ma di giovani....nati in Francia....in Belgio....in Inghilterra......cittadini francesi....belgi....olandesi....inglesi. Loro sono stati accolti in Europa....i loro genitori sono stati accolti in Europa ma sono stati solo accolti......in realtà collocati subito ai margini della convivenza sociale....appunto nelle periferie....luoghi del degrado e della frustrazione. Da sempre le periferie sono state inventate come luoghi dell'anonimato....di una umanità senza volto e senza nome.....qui è avvenuto l'incontro tra la civiltà europea accogliente ma gelosa della propria "egemonia " culturale e la civiltà araba "forte" della ricchezza culturale dell'Islam. L'accoglienza verso i nuovi arrivati è stata accoglienza "epidermica"......io ti accolgo....ti consento di conservare tutto ciò che appartiene alla tua storia ma "non rompere le scatole" con la richiesta di una tua reale integrazione e io ti concederò financo....la cittadinanza...per gentile concessione ! Accolti...ma mai integrati nella convivenza civile e politica della Nazione di cui, pur essendo cittadini, non si sono mai sentiti cittadini! La periferia ha fatto il resto....la vita nei sobborghi di Parigi...di Londra ecc. è stata e continua ad essere vita di frustrazioni e di miseria morale, che è quella più difficile da sopportare, anche quando si vivono condizioni di benessere materiale. La periferia è degrado anche nelle piccole realtà territoriali dove, qualche volta, siamo sconvolti e sorpresi da vicende delinquenziali che riguardano giovani "di buona famiglia", che, improvvisamente,si trovano alla ribalta della cronaca nera dopo un'infanzia e un'adolescenza vissuta nell'emarginazione di una periferia...sociale....circoscritta dal "filo spinato" di una società "perbenista" che non li ha mai voluto veramente come suoi figli ! Enzo Parato

sabato 7 novembre 2015

MI STA A CUORE: Una vita normale ? E' il fallimento ! (Forse il te...

MI STA A CUORE: Una vita normale ? E' il fallimento ! (Forse il te...: Siete appena tornati a casa dopo una lunga giornata di lavoro. La vostra macchina è in garage. Vi sentite stanchi. Cenate e vi rilassate sul...

Una vita normale ? E' il fallimento ! (Forse il testo è un pò lungo.....ma è degno di grande riflessione!)

Siete appena tornati a casa dopo una lunga giornata di lavoro. La vostra macchina è in garage. Vi sentite stanchi. Cenate e vi rilassate sul divano davanti alla Tv. Fuori sta piovendo. Terminate così la vostra routine quotidiana: addormentandovi nel giro di qualche minuto. Bene, appartenete a quei “fortunati” che hanno ancora un lavoro. Avete una casa, ma anche un mutuo. L'attività che svolgete è totalizzante e non vi lascia tempo per vivere. In questo modo, però, potete permettervi di pagare le tasse, le rate, qualche capo d'abbigliamento alla moda e di concedervi una vacanza forzosa nei periodi di ferie. Impiegate il vostro scarso tempo libero per uscire nei centri commerciali, nei bar o per cenare nei ristoranti. Probabilmente credete in Dio e nel fatto che il libero mercato implichi la libertà dell'essere umano. Perfetto avete una vita “normale”. Avete mai riflettuto sul concetto di normalità? Che cosa significa essere normali? Perché le persone vivono secondo un preciso tipo di normalità e non un altro? Siete realmente voi che state scegliendo come spendere il vostro prezioso tempo? Ha senso vivere in questo modo? Rende felici gli esseri umani? La normalità non è una condizione casuale, ma è il riflesso delle esigenze del sistema nel quale un individuo sperimenta la propria esistenza. Oggi, in particolare, in un mondo dove predomina il credo della dottrina neoliberista, risulta “normale” tutto ciò che è utile al capitale. La società in cui viviamo, con le sue regole e le sue prassi, ci appare normale perché siamo cresciuti al suo interno. Se avessimo avuto la possibilità di crescere in un'altra società, quella attuale ci sembrerebbe del tutto folle, anche se in effetti, soffermandosi a pensare, bisogna ammettere che ci apparirebbe folle perché in fondo lo è. Oggi la maggior parte dei lavori non vengono scelti dai lavoratori, ma è il sistema che tramite un ricatto economico costringe gli individui a svolgere determinate mansioni, ed a subordinarsi nei confronti di altri esseri umani. Se c'è richiesta di operai si andrà in fabbrica, se c'è domanda di programmatori si lavorerà per una software house e così via. Interessi, piaceri e volontà passano in secondo piano in una società capitalistica. Quando il dio è il profitto, l'umanità deve rinnegare la propria volontà per piegarsi alle sue necessità. Anche i luoghi di ritrovo usuali sfruttano la socialità dell'individuo per ricavarne un profitto. Non è affatto casuale che invece di riunirsi in un parco, per camminare in un bosco o in riva ad un fiume, le persone preferiscano passeggiare in un centro commerciale. Nel sistema capitalistico le persone vengono indotte a preferire il grigiore dei negozi allo splendore della natura. Lo stile e le mode degli indumenti che vengono comunemente indossati, sono stabiliti dalla grande distribuzione. Osservando una via affollata, un elevato numero di persone indossa puntualmente il medesimo modello di scarpe, che però varia di anno in anno. Quelle calzature rispecchiano in modo palese la strategia della massificazione, utile ad accrescere il profitto delle grandi marche. Alcuni non indossano più i capi dell'anno precedente non perché inefficienti, bensì perché fuori moda. Anche i percorsi di studio sono fortemente influenzati dal mercato, perché all'interno di una società capitalistica, lo scopo della scuola non è quello di fornire gli strumenti cognitivi necessari per maturare uno spirito critico, o quello di aiutare a coltivare le proprie passioni, ma di sfornare lavoratori docili ed ubbidienti, disposti a credere alle fandonie utili al potere e a subordinarsi per 8-12 ore al giorno per svolgere i ruoli utili al capitale, senza avere troppe pretese rivoluzionarie. Ecco allora che fioriscono gli indirizzi tecnici e le facoltà d'ingegneria, che notoriamente consentono di ottenere molto più facilmente di altre un contratto di schiavitù; ed ecco che in molti sognano di fare il medico in virtù dell'alta remunerazione, o di apprendere le lingue orientali, perché pensano che in futuro quella scelta gli garantirà maggiori possibilità lavorative. Si tratta di palesi distorsioni indotte dalle logiche attuali basate sul motivatore economico, che solitamente non scaturiscono da una reale e sincera passione, ma sono il frutto dei condizionamenti sociali. La maggioranza delle persone risulta fortemente influenzata dal sistema e dai suoi potenti condizionamenti nella scelta del lavoro, del vestiario, del corso di studi, dei luoghi di svago e persino nel modo di pensare, perché il sistema ha il potere di stabilire l'ordine naturale delle cose, quello che per l'appunto in molti chiamano “normalità”. Quegli individui non scelgono come vivere la propria vita, ma si arrendono inconsapevolmente ad un modello, lasciandosi trasportare da quello che appare il fisiologico decorso degli eventi, che in realtà è subdolamente imposto dai condizionamenti della società nella quale hanno esperienza di vita. Le imposizioni sono evidenti ed iniziano fin dalla tenera età: obbedisci, vai alla messa, vai a scuola, vai a lavorare, sposati, fai dei figli, compra una casa, compra una macchina, paga il mutuo, paga le tasse, segui la moda, guarda la tv, leggi i giornali, vai a votare, non lamentarti, non protestare, evita di pensare e soprattutto non dimenticarti mai di ripetere: «io sono libero, io sono libero, io sono libero...». Si potrebbe ingenuamente ritenere che i condizionamenti siano finalizzati ad assicurare delle buone condizioni di vita per l'umanità. Purtroppo però, oggi il sistema socio-economico-culturale non insegue la libertà, né la felicità o il benessere degli esseri umani, ma è orientato a soddisfare la brama di profitto. Il sistema oggi ha bisogno d'individui disposti a schiavizzarsi per 8-12 ore al giorno, di consumatori incalliti che vestono alla moda e di menti stanche, distratte ed assonnate davanti alla Tv. Il sistema ha bisogno di cervelli che non sono allenati al pensiero critico, che imparano a memoria i dogmi religiosi, economici e politici necessari alle élite per esercitare il controllo sociale. Il sistema ha bisogno di una massa docile, ubbidiente e incapace alla ribellione, che vada a votare chi userà il potere dello Stato contro di loro. Il sistema ha inscenato un'esistenza stereotipata da mettere al servizio delle esigenze del profitto, che produce l'ingiustizia dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, l'inefficienza indotta da un evitabile iper-consumo e che, oltre a condannare futilmente l'umanità ad un iper-lavoro, è causa principale dell'inquinamento ambientale. La legittimazione dei processi d'accumulazione stratifica la società. Gli individui si dividono in classi in base alla loro posizione sociale. Non ci sono esseri umani che condividono comparabili condizioni di benessere, ma sfruttati e sfruttatori, schiavi e schiavisti, parassiti e lavoratori, ricchi e poveri, occupati e disoccupati... A forza d'inseguire il profitto si concretizza una sorta di follia sociale. Ecco allora che per poter accettare un simile destino gli esseri umani devono convincersi del fatto che tutto ciò sia “normale”. A tal fine il sistema forma le menti, le distrae, le disorienta impedendo di pensare. La normalità deve diventare la migliore delle condizioni possibili, che dev'essere addirittura difesa e ricercata, in quanto percepita come una nobile aspirazione. Il sistema condanna la massa ad una routine meccanica, vuota e priva di significato, nella quale viene negato il tempo necessario per vivere la vita e per esercitare la propria unicità, caratteristica tipica di ogni essere umano non condizionato, che si può naturalmente osservare nei primi anni di vita di un bambino, quando il suo stile di vita è ancora puro, perché non ha ricevuto stimoli sufficienti da renderlo normalizzato. Il bambino è ilare, iperattivo, curioso, creativo, non ha paura, è libero, la sua casa è il mondo. Se per caso queste caratteristiche venissero mantenute integre anche in età adulta minerebbero profondamente il sistema capitalistico, che opprime e annulla gli individui, trasformandoli in ingranaggi inconsapevoli al servizio del capitale. Per mantenere la sua stabilità, il sistema capitalistico non ha bisogno di una massa di esseri umani pensanti, critici, scettici e razionali, né d'individui rivoltosi, disubbidienti e rivoluzionari. Il sistema non ha bisogno di persone creative, originali e stravaganti, né tanto meno d'individui liberi... ma di esseri “normali”. Da qui discende la necessità del controllo dei processi formativi ed informativi in concomitanza dell'attuazione di apposite tecniche di controllo e condizionamento sociale, ai più note come indottrinamento e propaganda. Quando un individuo cede adattandosi alla normalità, il sistema ha vinto. L'essere umano sperimenta così un fallimento che si riassume con la parola sopravvivere, anziché vivere. Infatti il doppio ruolo di lavoratore-consumatore, che il capitale ha ideato per la massa, non contribuisce a migliorare l'esistenza degli individui che lo sperimentano, semmai causa smarrimento, sminuendo il senso della vita. Le relazioni umane, i rapporti disinteressati, il tempo per l'arte, per la scienza, per il gioco e per l'amore vengono sacrificati futilmente in luogo d'una dimensione economica ipertrofica, che è divenuta totalizzante e che non vede altra meta se non quella d'inseguire il denaro. Il lavoro coatto, protratto e forzoso, tipico del capitalismo, è causa di stress, depressione, ansia e malattie. Grazie all'inefficienza dell'attuale sistema economico-produttivo, gli individui trascorrono il loro inestimabile tempo di vita tra la disperazione della disoccupazione e l'asservimento alienante del lavoro, quando non sono costretti a riparare il fisico dai danni d'una attività che non è pensata per essere piacevole o salutare. Il bisogno al consumo viene gonfiato mediante campagne pubblicitarie e apposite operazioni di marketing, modellando gusti e abitudini comportamentali. Affinché sia un perfetto strumento per il profitto, il consumatore deve perennemente vivere nell'insoddisfazione e nell'invidia, pensando di poter trovare sollievo acquistando ancora, ancora e ancora di più. Ma il consumismo non riuscirà mai a colmare le lacune d'una esistenza svuotata di significato, perché in realtà gli esseri umani non hanno bisogno di consumare, mentre invece hanno bisogno di vivere. La felicità non è una questione di consumo, ma di tempo in abbondanza da vivere in libertà, al riparo da preoccupazioni come la minaccia dello sfruttamento, della malattia e della povertà. Ecco che cos'è oggi, in estrema sintesi, la normalità: una massa d'individui normalizzati che lavora e consuma senza rimettere in discussione il paradigma dominante, contribuendo inconsapevolmente al mantenimento del sistema che li sfrutta, li opprime e li annulla. La normalità è un'insieme di costrizioni travestite da false necessità sociali utili al profitto, ma non di certo agli esseri umani. Nel mentre che l'inestimabile tempo della vita, l'ecosistema e la libertà, vengono sacrificati in nome della ricchezza d'una élite, miliardi d'individui vedono sfumare la possibilità di condurre un'esistenza di felicità. Cedere ai condizionamenti e adattarsi alla normalità, invece di ribellarsi, opporsi ed impegnarsi in prima persona per cercare di costruire una società migliore, è proprio quello che il sistema vuole che la massa faccia, perché in questo modo essa stessa contribuirà al mantenimento dello status quo. Chi si accontenta del proprio sfruttamento e invita gli altri a seguire il suo esempio invece di lamentarsi, di ripudiarlo e tentare di lottare contro di esso, cercando d'ideare un'alternativa per superare quella condizione, deve essere anche consapevole del fatto che sta gettando le basi per lo sfruttamento della propria generazione e di quelle che verranno. Per superare le imposizioni e le ingiustizie, liberarsi dalle costrizioni che oggi caratterizzano le vite di miliardi di esseri umani e creare le condizioni necessarie per far fiorire una nuova società, la massa deve fuggire dalla normalità, sforzandosi di manifestare la propria unicità. Le più grandi menti, gli artisti più talentuosi ed i più formidabili atleti sono da sempre tutt'altro che individui normali. La normalità stermina le capacità, impedendo all'individuo di realizzarsi sprigionando le proprie potenzialità racchiuse nel suo essere. Un processo che a cascata condanna l'intera umanità. Aspirare alla normalità rappresenta un'attitudine imposta subdolamente dal sistema, perpetrata con lo scopo di relegare alla massa specifiche funzionalità, riducendola in condizione di sfruttamento e di privazione di libertà. Per riappropriarsi del tempo necessario alla vita è doveroso sottrarre terreno a quella normalità economica che oggi è divenuta totalizzante, per restituire spazio alla creatività, al gioco, ai sentimenti e perché no, all'ozio. Per fuggire dalla trappola che attanaglia l'umanità, è necessario spezzare la normalità della forma mentis fideistica, iniziando a esercitare lo scetticismo e la razionalità. Studiare, informarsi e criticare in modo costruttivo le dinamiche sociali, al fine di smontare pezzo dopo pezzo tutti i dogmi utili al sistema. Superando quella normalità fatta di egoismo e di ricerca del profitto, l'umanità potrebbe finalmente iniziare a cooperare per costruire un sistema sociale nel quale la normalità significhi essere liberi di esprimere la propria unicità, senza più condizionamenti e false necessità sociali, che riducono gli esseri umani a meri schiavi inconsapevoli al servizio dell'esigenza di profitto d'una élite sfruttatrice e parassitaria. La strada della rinascita dell'umanità passa per il rifiuto della normalità. (M. M.)

mercoledì 28 ottobre 2015

Che bello......guardarsi negli occhi !

Su.....guardiamoci negli occhi!!! Nonostante il contatto possa essere a volte poco piacevole, non bisognerebbe mai abbandonarlo. In un'epoca dominata da smartphone e computer, è certamente necessario continuare a toccarsi, sfiorarsi, guardarsi per mantenere viva la relazione con gli altri. E' evidente che quando due persone non si vedono, la qualità della loro relazione diminuisce. I social network possono rallentare questo declino, ma non fermarlo definitivamente.E quindi..... abbiamo bisogno davvero di guardarci negli occhi l'un l'altro !

venerdì 23 ottobre 2015

MI STA A CUORE: LASCERA' SOLO MACERIE.....

MI STA A CUORE: LASCERA' SOLO MACERIE.....: Corre senza fiato e....lascerà solo macerie ! Di Craxi ha l’arroganza e la presunzione,ma non il profilo da politico di lungo corso (l’uomo...

LASCERA' SOLO MACERIE.....

Corre senza fiato e....lascerà solo macerie ! Di Craxi ha l’arroganza e la presunzione,ma non il profilo da politico di lungo corso (l’uomo che aveva ridato orgoglio a un Psi umiliato dal compromesso storico) e l’aura dell’Internazionale Socialista intorno, oltre che il partito nel pugno. Di Berlusconi ha lo stile da istrione e la ciarlataneria, che piace a molti italiani, ma non il capitale monetario e umano che Mediaset e Publitalia (con qualche compartecipazione quantomeno opaca) assicuravano. Dei precedenti leader non è neppur degno del confronto. Aveva, in compenso, fin dall’inizio un’unica risorsa su cui puntare: il mito della velocità. Mito marinettiano (un po’ frusto per la verità, un se c o l o p i ù tardi). E un unico profilo da presentare: quello che Walter Benjamin aveva chiamato il carattere del distruttore (quello che conosce “solo u n a p a r o l a d’ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia”; e per il quale si può dire che “l’esistente lui lo manda in rovina non per amore delle rovine, ma per la via che vi passa attraverso”).Come nel caso della nuova tecnologia usata in America per produrre idrocarburi, frantumando gli strati schistosi,anche Matteo Renzi pratica, programmaticamente, il fracking, generando energia dalla frantumazione di tutto ciò che gli sta sotto, a cominciare dal partito che l’ha portato fin sulla cima della piramide , e dalla macchina dello Stato. Accelerando non la soluzione, ma la crisi stessa. Rischiando di lasciare tutti – dopo aver fagocitato tutto -“ nudi alla meta”. O meglio, nudi di fronte al potere, dopo la distruzione dei diversi corpi intermedi che tradizionalmente avevano fatto da filtro e contrappeso , delle strutture di rappresentanza politica e sociale, delle culture politiche, capaci di aggregare individui e frammenti sociali, del suo stesso partito. In una parola, di quella complessità organizzata che da sempre ha garantito un livello, sia pur minimo e insufficiente,di pluralismo e di articolazione in una società complessa, preservandola dal rischio e dalla tentazione dell’uomo solo al comando di fronte a una società di atomi competitivi. (M.R.)

lunedì 12 ottobre 2015

La croce sopra il Campidoglio .

Nella vicenda della lenta ago­nia, fino all’annuncio delle dimis­sioni, del sin­daco di Roma Igna­zio Marino, alle gerar­chie eccle­sia­sti­che (Cei e Vica­riato di Roma, più che Vati­cano) e a parte dell’associazionismo cat­to­lico (comu­nità di Sant’Egidio in testa) spetta un ruolo di primo piano. Non per­ché sia stato papa Fran­ce­sco con le sue dichia­ra­zioni «ad alta quota» di ritorno dall’America — «io non ho invi­tato il sin­daco Marino a Phi­la­del­phia, chiaro?» — a deter­mi­nare la caduta del primo cit­ta­dino, seb­bene gli abbia asse­stato un duro colpo. Ma per­ché i vescovi hanno con­tri­buito al suo logo­ra­mento cin­que minuti dopo l’elezione. Anzi anche prima. «Ci si inter­roga sulle pos­si­bili svolte della nuova tra­zione che potrebbe con­se­gnare all’anima più lai­ci­sta di largo del Naza­reno lo scranno del Cam­pi­do­glio», scri­veva Avve­nire all’indomani delle pri­ma­rie vinte da Marino. E il giorno dopo lan­ciava l’allarme: «Cam­pi­do­glio, rischio-deriva sui valori» a causa di «un certo tipo di impo­sta­zione sul ver­sante etico, con poten­ziali rica­dute sulle scelte di poli­tica familiare». Alla vigi­lia delle ele­zioni, poi, sem­pre Avve­nire dava ampio spa­zio a un docu­mento di una serie di asso­cia­zioni (fra cui Forum asso­cia­zioni fami­liari, Movi­mento per la vita, Com­pa­gnia delle opere, Alleanza cat­to­lica) in cui la patente di «can­di­dato cat­to­lico» veniva asse­gnata a Gianni Ale­manno, e Marino sono­ra­mente bocciato. All’indomani della vit­to­ria del chi­rurgo, lo ammo­niva ad evi­tare di «pro­get­tare e pra­ti­care for­za­ture in sedi impro­prie» e ad «aprire campi di bat­ta­glia sulle que­stioni che inve­stono valori pri­mari». «Ci augu­riamo che nes­sun sin­daco si imbar­chi in improv­vide avven­ture antro­po­lo­gi­che», riba­diva il Sir, l’agenzia dei vescovi, «non ci si fa eleg­gere per inven­tare nuovi diritti o met­ter su improv­vi­sati labo­ra­tori sociali». «Cat­to­lico adulto» assai vicino al car­di­nal Mar­tini — con cui pub­blicò prima un lungo dia­logo sull’Espresso e poi un libro (Cre­dere e cono­scere, Einaudi) di grande aper­tura su temi etici -, Igna­zio Marino è agli anti­podi della dot­trina cat­to­lica sui «prin­cipi non nego­zia­bili», quindi assai temuto dalle gerar­chie ecclesiastiche. Il chirurgo cercò il papa per informarlo della trascrizione delle nozze omosessuali. Ma Bergoglio si negò ritenendola una provocazione La que­stione esplode ad otto­bre 2014, quando il sin­daco tra­scrive nei regi­stri comu­nali i matri­moni cele­brati all’estero da 16 cop­pie omo­ses­suali. «Scelta ideo­lo­gica, che cer­ti­fica un affronto isti­tu­zio­nale senza pre­ce­denti», tuona il Vica­riato di Roma. E in que­ste ore si apprende che pro­prio il giorno prima delle tra­scri­zioni, Marino tele­fonò in Vati­cano per infor­mare diret­ta­mente il papa, che però non parlò con il sin­daco e anzi con­si­derò quella tele­fo­nata quasi una provocazione. Negli ultimi giorni il lac­cio si stringe, fino al sof­fo­ca­mento. Deci­sivo è “l’incidente” dell’invito-non invito a Phi­la­del­phia, sul quale mon­si­gnor Paglia — sto­rica guida spi­ri­tuale della Comu­nità di Sant’Egidio -, alla tra­smis­sione radio­fo­nica La zan­zara, cre­dendo di par­lare con Mat­teo Renzi, dice parole duris­sime: «Marino si è imbu­cato, nes­suno lo ha invi­tato, il papa era furi­bondo». Poco dopo, la Comu­nità di Sant’Egidio è fra i primi a sbu­giar­dare il sin­daco, smen­tendo che ad una cena regi­strata dai famosi scon­trini siano stati pre­senti rap­pre­sen­tanti della Comu­nità, come invece asse­rito da Marino. Una posi­zione, quella di Sant’Egidio, che potrebbe nascon­dere qual­che inte­resse: in pas­sato il nome del fon­da­tore Andrea Ric­cardi era emerso come pos­si­bile can­di­dato a Roma, se ora rispun­tasse fuori con più forza, sareb­bero più chiare le ragioni per azzop­pare Marino. Annun­ciate le dimis­sioni, Oltre­te­vere non si strac­ciano le vesti, anzi. «Epi­logo ine­vi­ta­bile», scrive L’Osservatore Romano, «la Capi­tale ha la cer­tezza solo delle pro­prie mace­rie», «Roma dav­vero non merita tutto que­sto». «Adesso basta», aggiunge Avve­nire, che saluta la chiu­sura di «una paren­tesi che non sem­bra desti­nata a lasciare un segno inde­le­bile nella sto­ria quasi tri­mil­le­na­ria di que­sta città», ora «Roma merita one­stà e decisa cura». «Il tema di una nuova classe diri­gente non è più rin­via­bile», diceva ieri sera in una par­roc­chia il car­di­nal Val­lini, vica­rio del papa per Roma. E il Sir trac­cia l’identikit del nuovo primo cit­ta­dino di una città con una «mis­sione sto­rica, quella di porta di ingresso alla sede della cristianità».Un sindaco cattolico quindi....ma non come Marino! (L. K.)

sabato 3 ottobre 2015

Ma che Rivoluzione! Per carità!

La morte di Pietro Ingrao sembrerebbe aver innescato un sentimento collettivo di nostalgia generazionale. La nostalgia, se coltivata privatamente, è un sentimento come un altro. Ma ,quando diventa collettiva, assume consistenti sfumature di oscenità. La più ripugnante è questo ri-pensarsi delle generazioni italiche novecentesche, considerandosi come ex-rivoluzionarie. Non so voi, ma io, ripercorrendo l'intera mia esistenza di non-militante (e tuttavia fedelmente immancabilmente votante PCI), mi accorgo di non essere mai stato un rivoluzionario, anche se ho molto parlato di Rivoluzione. Non solo io non lo sono mai stato, ma la gran parte del Partito, dal '46 in poi, non lo fu mai. Non lo fu Ingrao, non lo furono le ali estreme, non lo furono i fuoriusciti del Manifesto, non lo furono partiti come il PSIUP: nessuno che nel PCI contasse qualcosa fu mai un vero rivoluzionario. «Non ci sono le condizioni», si diceva in continuazione: certo che non c'erano. L'Italia faceva parte della metà del mondo occidentale che nella spartizione di Yalta si assegnava all'impero americano, era nella Nato: non solo non ci sarebbe stata consentita la rivoluzione proletaria, ma era impossibile anche l'ingresso del PCI in una coalizione di governo, per non parlare di una maggioranza parlamentare e conseguentemente di un governo a conduzione comunista. Ma non furono queste le vere cause del nostro parlare di Rivoluzione senza essere rivoluzionari, cioè senza essere realmente disposti alla Rivoluzione. Secondo la mia visione i veri motivi furono altri. Il primo, e il più importante, era che stavamo abbastanza bene nel capitalismo italiano. Il Paese cresceva economicamente, la sinistra rivoluzionaria giovanile collaborava indirettamente alla sua necessaria ristrutturazione, facendolo uscire da uno stato prolungato di vetero-cattolicesimo autoritario, e introducendolo alla laicità consumista di cui ha bisogno il mercato moderno. Non esisteva uno stato di ingiustizia sociale estrema e di massa, ma solo un normale sfruttamento, con tassi di disoccupazione accettabili: la sofferenza e il disagio venivano però occultate dalle buone condizioni economiche degli operai occupati, di una piccola borghesia in ascesa sociale. Il Paese da povero che era diventava, se non proprio ricco, riccastro: il reddito veniva, sia pure moderatamente, re-distribuito, il capitalismo era frenato mitigato contrastato da un forte movimento operaio. Cioè da PCI & sindacati. In questo senso il PCI fu agente determinante per la crescita capitalista. La Rivoluzione proletaria non si può fare in un paese con consistenti elementi di social-democrazia, perché viene a mancare proprio la disperazione proletaria di cui dovrebbe nutrirsi. Il secondo motivo di ripulsa della Rivoluzione, probabilmente derivato dalle condizioni di civiltà raggiunte, fu la silenziosa non accettabilità di una implicita conseguenza dell'insurrezione: lo scorrere del sangue. Sangue che già in effetti scorreva abbondante nello scontro tra terroristi (questi sì, veri rivoluzionari, proprio per l'atrocità dei loro metodi e proprio per questo completamente isolati) e Stato e che de-stabilizzava il tacito, mai dichiarato, patto di reciproca assistenza PCI-Istituzioni. La de-stalinizzazione sovietica, prontamente adottata dal comunismo italiano, ripudiava violenza, purghe e gulag come atrocità assolute, paragonabili a quelle del nazismo, dimenticando che senza atrocità, purghe e gulag non c'è Rivoluzione. Si discuteva se lo stalinismo fosse già nel leninismo, cui si voleva restare il più possibile agganciati, pena la caduta totale di una teoria e di una prassi della Rivoluzione. La risposta, mai ufficialmente data, era naturalmente affermativa: non puoi abolire la proprietà privata senza tagliare un bel po' di teste. Il comunismo era quello che si vedeva là dove si era realizzato. Ma da un certo momento in poi si cominciò a fare finta di no. Quello vero era tutt'altra cosa. In Russia nessuno moriva più di fame, non c'erano più servi della gleba, tutti avevano diritto a Casa Istruzione Lavoro Salute, ma non c'era "libertà". Dunque occorreva costruire un comunismo diverso, munito di «libertà», senza però chiamarlo col suo vero nome: socialdemocrazia. Fu su questa ambiguità, sull'enorme quantità di non detto, che il PCI si incagliò nelle secche dell'89. Rotolò sulla battigia del neo-capitalismo e lì si arenò. Mostrando una capacità trasformista degna della migliore tradizione italiana, divenne progressivamente ciò che è oggi, assumendosi quel lavoro sporco che il capitalismo finanziario europeo esigeva da tempo e che Berlusconi non aveva saputo/voluto fare, per sostanziale incompetenza e disinteresse per la cosa pubblica. Ora, a cento anni, ci muore Pietro Ingrao ed è come fosse davvero la fine della storia del comunismo italiano: era estinto da tempo, ma non ancora sigillato nella tomba. Come molti di noi, lo piango e piango Pietro Ingrao. Ma non andrò ai funerali, non alzerò il pugno, non canterò Bandiera rossa. Da un paio di decenni il comunismo non può essere altro che un silente stato interiore. Una categoria incomunicabile dell'anima, un rovello, un dubbio, una perdita. Ma il marxismo ci fornisce ancora la possibilità di mantenere una qualche lucidità di sguardo sul presente. Purché tutto ciò che pensiamo resti non-detto. «Noi siamo sconfitti», diceva Pietro. Niente è più vero di questa ammissione. Ma allo stesso tempo niente ormai può distoglierci dalla coltivazione interiore dell'idea socialista, nessuno può convincerci della superiorità di questo liberismo da stronzetti. Siamo novecenteschi vetero-ostinati, apparentemente convinti che non ci avranno, mentre siamo loro da molto tempo. Forse siamo sempre stati loro ! (F.P.)

giovedì 1 ottobre 2015

Un monito......per tutti......rivolto soprattutto ai giovani!

«Chi spera, cammina: non fugge. Si incarna nella storia, non si aliena. Costruisce il futuro, non lo attende soltanto. Ha la grinta del lottatore, non la rassegnazione di chi disarma. Cambia la storia, non la subisce».

MI STA A CUORE: Quel 29 settembre.........guai a dimenticare!

MI STA A CUORE: Quel 29 settembre.........guai a dimenticare!: C'era la nebbia quella maledetta mattina del 29 settembre 1944 quando le SS della 16° divisione al comando del Maggiore tedesco Walter...

Quel 29 settembre.........guai a dimenticare!

C'era la nebbia quella maledetta mattina del 29 settembre 1944 quando le SS della 16° divisione al comando del Maggiore tedesco Walter Reder cinsero d’assedio Monte Sole, Monte Venere e le valli del Setta e del Reno, nei pressi di Marzabotto sull'Appennino bolognese. I soldati nazisti, favoriti dalle vigliacche spie fasciste, sorpresero la resistenza partigiana, compiendo quella che Salvatore Quasimodo definì «il più vile sterminio di popolo»: dopo una settimana di stupri, torture, umiliazioni, fucilazioni sommarie, le squadracce naziste lasciarono dietro il loro passaggio 1830 vittime, oltre 700 solo a Monte Sole: 315 donne, 189 bambini sotto i 12 anni, 30 adolescenti, 76 vecchi e 161 uomini. Le stragi avvennero in 115 luoghi tra chiese, borgate, paesi e ridisegnarono, per sempre, anche il territorio compreso tra il corso del Setta e quello del Reno. Non fu rappresaglia ma una specifica, vile, disumana, azione militare. Guai a dimenticare: la memoria rende onore alle vittime e dignità all'identità antifascista.

lunedì 28 settembre 2015

Invasione? Ma di cosa stiamo parlando ?

Si cominci, in primo luogo, a guardare i migranti come persone con storie di vita e progetti personali senza incasellarli in categorie generiche e disumanizzanti. Si dice “C’è un’invasione” ! Dall’inizio del 2015, secondo i dati dell’UNHCR, sono sbarcate in Italia 121mila persone (di cui il 78% uomini, il 12% donne e il 10% bambini). Una cifra che corrisponde allo 0,2% della popolazione italiana. Mario Morcone, capo del dipartimento libertà civili e immigrazione del ministero dell’Interno, intervistato da Redattore sociale, ha spiegato che, proprio basandosi su questi numeri, parlare di emergenza o invasione è sbagliato, aggiungendo inoltre:" Per quanto riguarda gli arrivi i numeri sono esattamente gli stessi dell’anno scorso, ci saranno mille, duemila persone in più, quindi probabilmente arriveremo a fine anno con un bilancio di circa 180mila, 170mila persone sbarcate, in linea […] con la pianificazione che come ministero avevamo già fatto". Altro dato da considerare è che gran parte delle persone arrivate in Italia non resta ma continua il proprio viaggio (anche dentro le maglie delle organizzazioni di trafficanti di essere umani) verso il Nord-Europa. Nel 2014, su 170mila arrivi, solo in 66mila hanno fatto richiesta di asilo. Attualmente in Italia, nei centri di accoglienza, ha spiegato il ministro dell’Interno, «ci sono 95mila migranti», cioè lo 0,16% della popolazione italiana. Comparando, inoltre, le richieste accettate dallo Stato italiano con quelle degli altri paesi Europei e nel mondo, l’UNHCR specifica che «il numero di rifugiati accolti dall’Italia rimane modesto». Nel vecchio continente nel 2014 si è registrata la quota record di 626mila richieste d’asilo, ma il nostro paese in media, scrive l’agenzia delle Nazioni Unite, «accoglie un rifugiato ogni mille persone, ben al di sotto della Svezia, con più di 11 rifugiati ogni mille, la Francia (3,5 ogni mille) e della media europea (1,2 ogni mille). In Medio Oriente, il Libano, al confine con la Siria, accoglie circa 1,2 milioni di rifugiati, pari a un quarto della popolazione del paese». A livello mondiale l’86% dei rifugiati del mondo trova accoglienza nei paesi vicini a quelli di fuga. Come sottolinea l’ultimo rapporto sulla protezione internazionale del 2014 – di Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo per rifugiati), Anci (Associazione nazionale dei Comuni italiani), UNHCR, Caritas e fondazione Migrantes –, Pakistan, Etiopia, Sud Sudan e Kenya hanno da soli provveduto a dare asilo a 2,8 milioni di rifugiati, corrispondenti al 24% del totale mondiale, mentre in Europa arriva meno del 10% dei richiedenti asilo. Scrive, inoltre, Davide Mancino su Wired che «i dati dell’ultimo rapporto sulle migrazioni internazionali dell’OCSE, aggiornati al 2012, mostrano che in Italia la percentuale di stranieri è al 9,4% – più bassa che in Francia o nel Regno Unito !

sabato 26 settembre 2015

In Italia......abbiamo bisogno degli stranieri !

Questo è il punto ! Abbiamo bisogno degli stranieri almeno quanto gli stranieri hanno bisogno di noi. Ne abbiamo bisogno non solo sotto il profilo economico e demografico, ma anche sotto quello culturale e spirituale, per evitare che la società italiana si riduca a una sorta di comunità Amish, chiusa in se stessa e destinata all'infertilità e all'esaurimento. Questo è il punto cruciale.

venerdì 25 settembre 2015

Io t'ho inventata !

Tu eri già il progetto mio ho saputo aspettare la luna tra disillusioni e tanta speranza, poi ecco io t'ho inventata ! Nella rossa terra dal lungo torpore recalcitrava impaziente la primavera quando anche tu sei arrivata dal mare e dalla vigna prosperosa recandomi i tuoi frutti maturi, i doni pingui della tua esistenza, oggi non trovo più il tempo per carezzare i tuoi biondi capelli ma il sole caldo della tua dolcezza ritempra le fatiche e i turbamenti nel letto della tua sorgente eterna !

No.......non mi piace !

Non mi piace il ritualismo natalizio, ha il sapore del già visto ! Non mi piace il buon Natale che ignora l'abbraccio ! Non mi piace quel posto a tavola riservato solo a Natale al clochard e all'immigrato... mi sa tanto....di rimorso ! Non mi piace l'elenco delle promesse universali, dei buoni propositi già cancellati a S.Stefano dal registro dei nostri programmi ! Mi piace il Natale ...di ogni giorno, quello che è pane quotidiano della nostra esistenza e di chi abita questo nostro pianeta, il Natale della quotidiana condivisione, quello della quotidiana comunione, quello dell'universale riconoscimento dei diritti di ogni essere vivente! Mi piace l'Avvento ....il tempo dell'attesa di un Natale senza fronzoli, di un Natale vero...quello che non c'è !

mercoledì 23 settembre 2015

IL MASSACRO DI ITRI- 1911

911 - FUORI I SARDEGNOLI - IL MASSACRO DI ITRI Grazie al prezioso lavoro dello storico Professor Tonino Budruni che ha ricostruito minuziosamente nella «Rivista della Sardegna» Ichnusa n.10, maggio/giugno, anno 5 del 1986, oggi siamo a conoscenza dei «Giorni del massacro ». Era il 1911, anno in cui molti sardi riponevano nell’emigrazione la speranza di una vita migliore, la quale palpitava, fiduciosa e intrepida, sul posto di lavoro. Tuttavia, nel luglio di quell’anno per quattrocento figli della Sardegna, il sogno si frantumò nel suolo italico in una realtà di persecuzione e d’orrore. Essere sardo e per questo pagarne il prezzo, subirne il razzismo di persona, sperimentarlo sulla propria pelle fu un’esperienza, purtroppo, di molti di questi nostri conterranei. Nella storia che segue vedremo la xenofobia antisarda manifestarsi in tutta la sua animale violenza contro quei lavoratori «diversi». Erano anni di progresso tecnologico in cui la ferrovia ne rispecchiava il mito, attraversandone l’Italia. A costruire le migliaia di chilometri di linee ferroviarie, altrettante migliaia di braccia. E fu così che circa mille sardi, quasi tutti minatori del sud Sardegna, furono impiegati per la costruzione della linea Roma – Napoli. Assumere sardi era allora conveniente, poiché lavoravano sodo, in cambio, a parità di mansione, di un salario inferiore a quello degli operai continentali, loro colleghi. Quattrocento operai isolani, furono, quindi, stanziati temporaneamente nel comune di Itri, all’epoca in provincia di Caserta e oggi di Latina, ossia nella cosiddetta: «Terra di lavoro». Gli abitanti di Itri, però, fomentati e spalleggiati indirettamente dai mass – media italiani che descrivevano i sardi come una «razza inferiore e delinquente per natura», sollevavano pregiudizi razzisti contro i sardi. A servirsi di questa opinione diffusa e consolidata in una costante tensione sociale fu la camorra, nel momento in cui la sua autorità fu sconfitta dagli involontari rappresentanti del Popolo Sardo, la quale riuscì a trasformare tale convinzione in sentimento di odio sanguinario antisardo. L’organizzazione criminale, alla quale interessava solo il denaro, che ruolo e quali interessi poteva nutrire in questo scontro di culture? La risposta è semplice e nello stesso tempo terrificante: ai lavoratori sardi si voleva imporre il cosiddetto «pizzo». Ma alla camorra, che assumeva la posizione del «padrone», si contrapponeva il netto rifiuto, pacifico ma fermo, di quei baldi lavoratori di pagare. Questa decisione fu presa, sia per l’innata fierezza della cultura «De s’omine», sia per la matura coscienza dei diritti loro spettanti, anche se non ancora conquistati, in quanto lavoratori. I criminali, quindi, per scongiurare il contagio di tale rivoluzione, puntarono sugli anzidetti sentimenti degli itrani (cosi si fanno chiamare gli itriesi) per cacciare i sardi da «Terra di lavoro». La furia fanatica razzista, organizzata minuziosamente, si compì tragicamente nei giorni di mercoledì e giovedì 12 e 13 luglio del 1911. Al grido: «Morte ai sardegnoli», i nostri antenati furono, per quei due giorni, le prede indifese della «caccia al sardo». Nel primo giorno un gruppo di operai fu insultato e provocato nella piazza dell’Incoronazione, l’epicentro della storia. Al grido «Fuori i sardegnoli», la parola d’ordine per richiamare gli itrani in quel luogo, a centinaia accorsero armati, attaccando da ogni parte i nostri conterranei inermi. In una ridda di sorpresa, di urla, anche le autorità locali aprivano il fuoco promettendo immunità ai compaesani, non di meno fecero i carabinieri, i quali spararono sui sardi in fuga. Quel giorno, il selciato italico s’impregnò del primo sangue dei martiri trucidati barbaramente. Gli operai scampati alla persecuzione xenofoba si rifugiarono intanto nelle campagne circostanti. L’indomani, i lavoratori rientrarono nel paese per raccogliere i loro fratelli caduti come soldati in guerra, ma la «fratellanza operaia», «la pietà cristiana», si evidenziarono utopiche mete. Entrarono nell’abitato e nuovamente divampò la triste sinfonia di morte col grido di battaglia: «Fuori i sardegnoli». Gli itrani convergendo in massa, passarono prima in una bottega, nella quale si distribuivano armi per l’occasione. Qui si avvertiva: «Prendete le armi e uccidete i sardi». La seconda giornata di caccia all’«animale sardo» era aperta! Gli itrani, ancora accecati dall’odio razzista e non contenti del sangue già versato, si scagliarono nuovamente contro i lavoratori sardi inermi e, con più raziocinio criminale del giorno prima, ancora ammazzarono. In queste due giornate furono massacrate una decina di persone, tutte sarde. Il numero esatto delle vittime non si venne mai a sapere, poiché gli itrani trafugarono numerosi cadaveri e feriti moribondi per nascondere il numero esatto delle vittime. Alcuni operai sequestrati subirono la tortura e una sessantina furono i feriti, di cui, diversi, molto gravi, perirono in seguito. Molti sardi scampati alla strage furono arrestati con la falsa accusa di essere rissosi. Mentre, altri, per la stessa accusa, furono espulsi da quella «terra del lavoro» e rispediti in Sardegna. Pagarono caro il prezzo della loro provenienza e cultura, ma la camorra, da quei fieri sardi, non vide neppure un soldo. Per questi fatti non un itriano fu punito. E il grave avvenimento fu subito occultato. L’avvocato Guido Aroca scrisse: «Se alcunché di simile si fosse verificato ai danni siciliani o romagnoli, l’Italia tutta sarebbe oggi in fiamme». Dopo quei giorni dolorosi, i sardi, per il tornaconto bellico italiano del ’15 ’18, diventeranno la «razza guerriera ed eroica» che salvò le sorti dell’Italia. Divulgare oggi questa storia, è, innanzitutto, un dovere verso quei martiri antesignani della lotta sindacale, ma, altresì insegna a riconoscere e denunciare forme attuali di razzismo mascherate con il belletto, le quali si configurano nella moderna forma di colonizzazione politica e culturale. Il sacrificio dei nostri antenati non ha avuto giustizia e in continente si sostiene ancora che «I sardegnoli se la son cercata». A distanza di anni da quei fatti, la forma mentis ferocemente antisarda è stata dichiarata lucidamente dallo stesso «Stato di diritto» italiano, nel momento in cui, con tracotanza, istituzionalizzò il proprio pregiudizio e razzismo contro i sardi (e solo contro i sardi) emigrati in s’Italia, con una schedatura poliziesca di uomini, donne, vecchi e bambini. La registrazione ebbe inizio nel 1984, all’insaputa degli stessi sardi, con la regione Lazio per poi essere estesa ad altre regioni fino ad una data incerta degli anni ’90. Frantz Fanon aveva pienamente ragione: «Un Paese colonialista è un Paese razzista!». I sardi, per un complesso di colpa indotto da anni di colonizzazione culturale, accettarono passivamente di essere considerati, nel loro insieme e capillarmente, potenziali criminali.

lunedì 21 settembre 2015

Ecco come si delegittima il dissenso !

Ecco a voi.....la delegittimazione del dissenso ! Viene da chiedersi.....ma di cosa si nutre l'egemonia culturale, costruita in questi trent' anni a livello mondiale, della destra, o meglio, del pensiero individualista - liberista? Di tantissime cose naturalmente........si potrebbe anche scrivere un trattato. Mi piace ricordarne tuttavia una....... quella sorta di decisionismo qualunquista, demagogico,quello del fare fine a se stesso, che dà sempre ragione a chi comanda .Questo decisionismo utilizza sempre frasi come: "almeno lui fa qualcosa" , "meglio fare che stare fermi", "ah ...questa opposizione che ama perdere tempo".Sono espressioni che nascondono concetti generici .....inutili, ma spesso molto radicati nel comune sentire, con lo scopo di rafforzare il consenso per chi governa, in maniera automatica, perchè oggi sempre di più, solo chi è al governo può fare qualcosa, mentre agli altri, a volte,è negato anche il tempo per controbattere. In definitiva....si afferma sempre più......una sorta di violenza psicologica, la delegittimazione del dissenso a priori e in quanto tale !

LUI....LE PERSONE LE VEDE ANCORA!

È andato lì. Dall’altra parte del mondo. Con la sua andatura goffa, la sua borsa nera, il suo sorriso da parroco di campagna. E al leader dei leader, ormai anziano, ha detto: bisogna servire non le ideologie ma le persone. Come dire: sei stato bravo ma a un certo punto hai strafatto. Hai seguito l’idea e non il volto. E lui, Francesco, che tra i due grandi nemici ci ha messo la buona parola per fermare quello che in nome delle reciproche ideologie stava generando ancora sofferenza tra le gente, se lo è potuto permettere perché non è un ideologo. Le persone le vede ancora. Nonostante sia al vertice del potere ecclesiale in terra, lui che gode anche del potere divino dell’infallibilità, ha le scarpe consumate e non lucide. Quindi caro Fidel, Francesco, il Papa in persona, non ha fatto un favore né a te né a Obama. Semplicemente ha scelto di schierarsi con altri: il popolo, la gente. Le persone. Dipende, quando hai potere, tanto potere, a servizio di chi intendi metterlo: l’idea, il principio o la loro incarnazione nella vita delle persone? Ovviamente vale per Fidel, per Obama e per ognuno di noi. In fondo il piccolo orto dove agire il nostro potere lo abbiamo tutti. (E.L.M. )

domenica 20 settembre 2015

La gioia....di un solo attimo...

La felicità ?Forse non è di questo mondo......ma la gioia...... anche di un solo attimo...quella sì.....appartiene a questo mondo e compensa ampiamente la sofferenza e il dolore nella nostra esistenza !

Buon dialogo!

La lettura ha incespicato in una domanda: ‘Come può accadere che un gruppo di dirigenti con indici individuali d’intelligenza superiore a 120, abbia un indice collettivo di 63?’. La risposta qualche rigo più in là: ‘la disciplina dell’apprendimento di gruppo inizia con il dialogo, la capacità dei membri del gruppo di mettere in mora le ipotesi e passare a un genuino ‘pensare comune’. E ancora: ‘è interessante notare come la pratica del dialogo si è preservata in molte culture primitive ma è quasi completamente perduta nella società moderna’. Ecco un sincero augurio agli insegnanti: coltivare la pratica del dialogo, investire sul gruppo e sulla sua possibilità di potenziare e non ridurre le intelligenze e le capacità di ognuno. Se cresce il gruppo, l’indice collettivo del gruppo, cresce anche ogni singola persona. Cresce soprattutto il pensare comune Le piccole rivoluzioni sociali cominciano quando la classe scopre i legami e diventa gruppo. Che sia un anno di legami rivoluzionari per ognuno !

Benedetta.....curiosità !

La curiosità facilita l’apprendimento, e non solo dell’argomento che l’ha stimolata, ma anche di informazioni del tutto diverse ma che appaiono in un lasso di tempo più o meno concomitante. A dimostrarlo è stato un gruppo di neuroscienziati e di psicologi dell’Università della California. Insegnanti ed esperti di didattica sanno bene che chi nutre un interesse spontaneo per un argomento lo impara e lo padroneggia meglio di chi non è interessato o è spinto da una motivazione secondaria, come prendere un bel voto o evitarne uno brutto. I meccanismi alla base di questo fenomeno non erano però noti. “La curiosità può mettere il cervello in uno stato che permette di imparare e conservare qualsiasi tipo di informazione, come un vortice che risucchia all’interno di ciò che si è motivati a imparare anche tutto quello che c’è intorno”, spiega Matthias J. Gruber, primo firmatario dell’articolo pubblicato su “Neuron” in cui è descritta la ricerca.

sabato 19 settembre 2015

Ma perchè sentirsi indispensabili ?

“La malattia del sentirsi “immortale”, “immune” o addirittura “indispensabile?Un’ordinaria visita ai cimiteri ci potrebbe aiutare a vedere i nomi di tante persone, delle quali alcune forse pensavano di essere immortali, immuni e indispensabili! È la malattia del ricco stolto del Vangelo che pensava di vivere eternamente (cfrLc 12,13-21), e anche di coloro che si trasformano in padroni e si sentono superiori a tutti e non al servizio di tutti. Essa deriva spesso dalla patologia del potere, dal “complesso degli Eletti”, dal narcisismo che guarda appassionatamente la propria immagine e non vede l’immagine di Dio impressa sul volto degli altri, specialmente dei più deboli e bisognosi. L’antidoto a questa epidemia è la grazia di dire con tutto il cuore: «Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare» (Lc17,10)”.(R.D'AM.)

giovedì 17 settembre 2015

L'Europa? Un arcipelago di reciproci apartheid !

Nel giro di un’estate gli europei hanno assestato alla loro presunta casa comune una sequenza di colpi micidiali. Prima con la crisi greca, quando ci siamo divisi lungo la faglia Nord-Sud, ovvero “formiche” contro “cicale”, spingendoci a evocare per la prima volta l’espulsione di un inquilino per morosità. Poi, medicata ma non curata tanta ferita, ecco lo tsunami dei migranti. Stavolta la partizione distingue, zigzagando, l’Est dall’Ovest, ossia alcuni paesi in paranoia xenofoba da altri che cercano di non farsene contagiare, aggrappandosi ai valori fondativi della moderna civiltà europea. I muri portanti dell’architettura comunitaria si stanno sbriciolando. Al loro posto proliferano arcigni tramezzi o loro surrogati in lamiera e filo spinato. A disegnare sinistre enclave protette, che si vorrebbero impenetrabili ai migranti d’ogni sorta, profughi inclusi. Neanche fossero portatori d’infezione culturale. Forse però gli infetti siamo noi. Come possiamo considerarci associati in una comunità di destino con un paese come l’Ungheria, che nel 1956, invasa dai carri sovietici, suscitò in Europa occidentale (Italia compresa) una gara di solidarietà con i suoi profughi, e che oggi si trincera dietro un muro, dichiara criminali coloro che vorrebbero passarlo e mobilita polizia ed esercito contro chi s’azzarda a bucarlo? Quando nel 2000 i “liberali” austriaci di Jorg Haider furono ammessi al governo dell’Austria, gli altri quattordici Stati membri (l’Ungheria e gli altri ex satelliti di Mosca erano ancora in lista d’attesa) imposero blande sanzioni politiche a Vienna. Oggi a Budapest domina, legittimato dal voto popolare, un carismatico leader xenofobo, Viktor Orbán, al cui confronto Haider si staglia campione di tolleranza. Per Orbán i migranti sono animali pericolosi e per tali vanno trattati. Esasperati, i tedeschi minacciano di colpire l’Ungheria e gli altri paesi che equiparano i migranti ai criminali con sanzioni economiche, tagliando i fondi strutturali loro dedicati. È notevole che, nel penoso annaspare della Commissione e nella decadenza della Francia, Berlino si muova per conto del resto d’Europa, avendo constatato che persino i vertici intergovernativi non servono più a nulla, se non a riconoscersi diversi. Certo non è con le multe, per quanto onerose, che si può spaventare chi si considera in lotta per la sopravvivenza contro un’invasione nemica. L’unica coerente misura sarebbe di separarci con un taglio netto da chi viola apertamente e ripetutamente le regole di base della convivenza umana, prima che lettera e spirito dei trattati europei. Se questa è la sua Europa, se la tenga. Sulla questione migratoria sta riaffiorando un antico spartiacque geoculturale che la retorica europeista voleva sepolto. Al Centro-Est del continente, tra Balcani e Baltico, persiste una radicata concezione etnica dello Stato: l’Ungheria è degli ungheresi (naturalmente anche di quelli in provvisoria diaspora, specie fra Slovacchia, Serbia e Ucraina), la Slovacchia degli slovacchi, la Romania dei romeni (inclusi quelli di Moldavia) eccetera. All’Ovest resiste a stento l’idea di cittadinanza, che fonda la nazione su valori e regole condivise al di là del sangue. Modello inaugurato dalla Francia rivoluzionaria, che oggi trova nella Germania multietnica l’esempio migliore. Geograficamente siamo tutti europei. Culturalmente e politicamente apparteniamo a continenti diversi. Ancora per poco, forse. Da questo sabba xenofobo potremmo essere travolti anche noi euroccidentali, italiani non esclusi. Il mito della comunità monoetnica, votata a proteggersi dalle impure razze che bussano alle porte, ha rivelato nella storia la sua potenza di fascinazione. Partita nel 1957 come Europa occidentale, avanguardia veterocontinentale dello schieramento atlantico, questa Unione Europea può scadere nel suo perfetto opposto: un caotico subbuglio di nazionalismi etnici. Arcipelago di reciproci apartheid. Ciascuno arroccato dietro le sue fortificazioni. Con le eurocrazie elitiste a salmodiare nei palazzi blu di Bruxelles e Strasburgo, mimando riti cui esse stesse hanno rinunciato a credere. Nelle emergenze storiche le democrazie europee hanno saputo talvolta ispirarsi a leader decisi a difenderle. Vorremmo sbagliarci, ma oggi non ne vediamo traccia !

martedì 15 settembre 2015

Passo dopo passo.....

Un po’ alla volta. Passo dopo passo..... ci sta conducendo lì. Qualche volta prendendoci per mano. Qualche altra volta stupendoci. Spesso facendo e poi dicendo. Tutta colpa, o merito, della coerenza. La sua. Non bisogna però tirarlo per la giacchetta. Anzi per la papalina. Noi a discutere di IMU e Tasi qualche mese fa. Lui silenzio. Ieri l’affondo. ‘I conventi se lavorano come alberghi, paghino le tasse’. Che viene dopo: - ‘Le chiese chiuse sono dei Musei’ e questo in Italia soprattutto è verissimo. - ‘Ogni parrocchia ospiti una famigIia di migranti’. Qualcuno dice che sta facendo poca teologia e quella che fa la fa male (vedi annullamento dei matrimoni!). Certo è che i barboni si fanno la doccia a San Pietro, che l’elemosiniere del Papa lavora più per strada che dietro la scrivania, che i vescovi come Gaillot messi ai margini della Chiesa perché stanno dalla parte dei poveri salgono in Vaticano chiamati in udienza dal Papa in persona. Ha un modo originale e tenace di interpretare quella pagina splendida del Vangelo quando Gesù in persona, arrabbiandosi come una furia, caccia i mercanti dal tempio che erano lì con il tacito consenso dei grandi sacerdoti che nello stesso luogo pregavano e amministrativo i loro riti e il loro potere. Non si arrabbia Francesco. Mica è Gesù! Ha un modo tutto suo di dire e svelare le ambiguità. Si serve del potere per poter fare e dire delle cose potenti. Il ‘lì’ dove ci sta portando è la Chiesa delle beatitudini, che sono roba di questo mondo non dell’altro!

lunedì 14 settembre 2015

LA SCUOLA NEL BOSCO !

A Ostia Antica prende il via la Scuola nel Bosco, un progetto sperimentale dedicato all'educazione primaria e basato sull'insegnamento all'aria aperta, esperienziale e impartito dalla natura. "Si impara facendo!" e lo si fa in un luogo da fiaba, immerso nel verde, circondato dalla Storia e a due passi dal mare. “Una volta scesa dal trenino attraversa il ponte blu, al castello prendi la prima strada a sinistra, prosegui in mezzo la campagna, superate le pecore segui le indicazioni in legno. Sarà una passeggiata!”. Quello che potrebbe essere l’inizio di una favola è in realtà il percorso per arrivare alla Scuola nel Bosco. Me lo ha spiegato Giordana per telefono e subito la mia fantasia ha iniziato a lievitare. E le aspettative non sono state deluse: la Scuola nel Bosco è davvero un luogo magico. Immerso nel verde, ricavato in un antico casale, baciato dal sole. La Scuola nel Bosco ha tutto ciò che si potrebbe desiderare per crescere, imparare e divertirsi. Non ci sono banchi, lavagne e castighi. In un angolo un cartello ricavato dal legno ammonisce: "In questo piccolo pezzo di mondo non è vietato: giocare a palla, saltare sulle balle, salire sugli alberi, ridere a crepapelle, sporcarsi, giocare con l'acqua, urlare di gioia, andare nelle pozzanghere". “Andate a giocare ma senza divertirvi!” si sente urlare ironicamente da uno dei maestri. I bambini scoppiano a ridere. Attorno a loro lo spazio aperto è tantissimo e i giochi sono quelli di una volta: balle di fieno, amache, una corda a cui appendersi. E poi ancora: cani, gatti e un asino, di nome Serafino. “E’ uno dei maestri” mi spiegano entusiasti i bambini. E c’è da crederci. Un altro dei maestri compare avvolto in un mantello marrone, scalzo: “Chi è pronto per salire sulla nostra nave e salpare con noi verso quest’avventura?” chiede ai futuri scolari incantati. In un attimo si forma una fila perfetta di bambini che non vedono l’ora di gettare gli ormeggi. E’ il primo giorno di scuola primaria e loro sono entusiasti. Inizia il viaggio e, a quanto pare, è tutto prontissimo. “A parte il programma - racconta Paolo, un altro degli insegnanti - qui è tutto in divenire. Abbiamo delle linee guida ma poi sono i ragazzi che di volta in volta ci indicano la via. Se si è in grado di ascoltarli, gli alunni sono bravissimi a indicare il metodo migliore per insegnare loro”. E, a quanto pare, il metodo funziona. Da anni ormai l’Asilo nel Bosco (situato nello stesso luogo) raccoglie consensi e ottiene successi grazie a questo approccio e ora, con la Scuola nel Bosco, anche i bambini più grandi, dai sei ai dieci anni, potranno sperimentare questo nuovo progetto pedagogico. “La scuola nel Bosco nasce proprio dalla collaborazione tra L’Asilo nel Bosco e l’Istituto Comprensivo Amendola Guttuso - spiega Paolo - I bambini sono iscritti alla scuola pubblica che ha sede ad Ostia Ponente ma parteciperanno a questo progetto sperimentale che ha la base nel nostro casale nella campagna di Ostia Antica. L’obiettivo è quello di stimolare processi d’apprendimento efficaci puntando sulla curiosità degli alunni, che per noi è l’unica chiave in grado di aprire davvero le porte della conoscenza”. Ma come funziona questo approccio? “Intanto i libri di testo sono sostituiti da esperienze piacevoli in grado di stimolare le domande dei ragazzi. La lezione di Scienze, per esempio, si farà nel bosco o nell’Oasi LIPU di Ostia, quella di Storia agli Scavi di Ostia Antica o al Castello di Giulio II, quella di letteratura si farà spesso attraverso il teatro o il fumetto, quella di geometria all’orto e così via”. Ma non solo: “Le arti saranno quotidianamente presenti nella vita dei bambini - continua Paolo, presentando i vari colleghi - la pittura, la scultura e il fumetto saranno tutte discipline che faranno parte integrante del Piano di Offerte Formativa. Non mancheranno inoltre lo yoga, il teatro, la musica…”. E il tutto si svolgerà prevalentemente all’aria aperta. “Un altro aspetto caratterizzante della nostra Scuola. Con l’Asilo nel Bosco abbiamo potuto vedere con i nostri occhi quello che tanti studi pedagogici hanno da sempre sostenuto: più i bambini stanno all’aperto più crescono autonomi, creativi, sereni, con una socialità molto ricca e poco conflittuale. Ora si tratta di metterlo in pratica anche nella scuola primaria”. Tutto ciò, ovviamente, senza trascurare gli obiettivi dell’insegnamento tradizionale, anzi: “Lavoreremo sugli obiettivi del ministero e siamo convinti che con la didattica che proporremo raggiungeremo i diversi traguardi in minor tempo e, soprattutto, lo faremo in maniera piacevole per i bambini, perché - sottolinea Paolo - la felicità dei bambini nel presente, per noi, è un aspetto primario. Il nostro sogno è che la scuola diventi un posto così bello che i bambini ne reclamino l’apertura anche nei giorni festivi!”. Un obiettivo non da poco, ma niente a confronto con la missione che si sono prefissati questi estrosi e coraggiosi maestri del Bosco: “Siamo convinti che gli alunni che faranno questo percorso avranno successo anche nelle esperienze scolastiche successive ma ci teniamo a sottolineare che il nostro scopo principale non è quello di prepararli alle medie, al liceo, all’università o ad una futura occupazione ma quello di fornire competenze che saranno davvero utili nella vita”. Forse, la sfida più grande che ogni insegnante dovrebbe porsi. Ad oggi, del resto, nei Paesi del nord Europa questo tipo di insegnamento è già molto diffuso e anche in Italia realtà del genere stanno prendendo rapidamente piede: “Sarà che i risultati sono sorprendenti! - afferma Paolo con soddisfazione - Anche per questo insieme agli altri progetti italiani di educazione all’aria aperta stiamo costituendo un’associazione che tra i diversi obiettivi ha quello di stimolare lo Stato a fare una nuova legge per la scuola dell’infanzia e per la primaria, visto che quella vigente risale al 1975...” E, forse, è un po' anacronistica!(E. T.)

Buon dialogo!

La lettura ha incespicato in una domanda: ‘Come può accadere che un gruppo di dirigenti con indici individuali d’intelligenza superiore a 120, abbia un indice collettivo di 63?’. La risposta qualche rigo più in là: ‘la disciplina dell’apprendimento di gruppo inizia con il dialogo, la capacità dei membri del gruppo di mettere in mora le ipotesi e passare a un genuino ‘pensare comune’. E ancora: ‘è interessante notare come la pratica del dialogo si è preservata in molte culture primitive ma è quasi completamente perduta nella società moderna’. Ecco un sincero augurio agli insegnanti: coltivare la pratica del dialogo, investire sul gruppo e sulla sua possibilità di potenziare e non ridurre le intelligenze e le capacità di ognuno. Se cresce il gruppo, l’indice collettivo del gruppo, cresce anche ogni singola persona. Cresce soprattutto il pensare comune Le piccole rivoluzioni sociali cominciano quando la classe scopre i legami e diventa gruppo. Che sia un anno di legami rivoluzionari per ognuno !

domenica 13 settembre 2015

Il razzismo ? Una cosa molto seria!

Il razzismo Il razzismo è una cosa molto seria. È una ideologia, cioè una visione del mondo basata su concetti più o meno astratti e più o meno sofisticati, che “spiega” il perché di alcuni fenomeni sociali, ne individua le ragioni, fornisce soluzioni. Fa, il razzismo, quello che fa qualunque altra ideologia o religione (pur’essa una ideologia): interpreta il mondo. Il razzismo non è una ideologia che trova sostenitori solo tra le fasce di popolazione più ignoranti e culturalmente chiuse. Per niente. Storicamente è sempre stato una ideologia trasversale che si è radicato nel sottoproletariato come tra la colta borghesia. La sua idea base è che le popolazioni umane non siano tutte uguali ma che esista, al contrario, un ordine gerarchico dove le popolazioni umane si posizionano in base a criteri variabili ma che, nella sostanza, tendono sempre a stabilire una graduatoria, dall’alto verso il basso. Non esiste un solo criterio per definire la scala gerarchica, naturalmente. Di volta in volta, a seconda di dove l’ideologia razzista viene insegnata e praticata, può essere il colore della pelle, la religione, gli usi e costumi che alcuni gruppi etnici praticano, tutto questo e molto altro ancora variamente miscelato. Il razzismo è discendente e ascendente. Cioè guarda verso l’alto e verso il basso. L’atteggiamento del razzista non è quello della repulsione verso la popolazione considerata inferiore o superiore. È, nel caso di razzismo verso gli “inferiori” quello della dominazione. Nel caso di razzismo verso i “superiori” la complicità, il desiderio di essere accettato. Salvo il caso, naturalmente, in cui il razzista si consideri facente parte della popolazione in cima alla scala. Dunque per essere davvero razzisti occorre possedere un certo numero di informazioni, vere o false che siano, una discreta capacità di elaborazione intellettuale e la convinzione che le informazioni possedute e la logica che le tiene assieme siano vere, verificate e, in linea di principio, sempre verificabili. Il razzismo è pertanto un fenomeno politico e della specie più strutturata: è ideologia. Cosa ben diversa è la paura sociale. Cioè il sentimento di timore che una parte consistente di individui manifestano nei confronti di fenomeni sconosciuti o poco conosciuti ma considerati, complessivamente, a torto o a ragione, una minaccia alla propria sicurezza o alla propria tranquillità sociale e individuale. La paura sociale si manifesta sempre attraverso la repulsione. Si respinge cioè il fenomeno col quale si viene in contatto o si scappa da questo per il timore che possa essere nocivo, al limite mortale. I fenomeni che generano paura sociale sono quasi sempre fenomeni di grande cambiamento: politico (l’ascesa di partiti considerati pericolosi, di destra o sinistra che siano), economico (le crisi che determinano disoccupazione, malessere sociale), culturale (la richiesta di liberalizzazione delle droghe, lo sviluppo di tecnologie che stravolgono le abitudini consolidate) e demografico (l’immigrazione). La paura sociale non è una ideologia. Non ha una visione del mondo organica e strutturata. E’ semplicemente un sentimento. Certo, allo stesso modo delle ideologie attecchisce trasversalmente. Si impossessa del sottoproletario analfabeta, come del borghese colto, come dell’intellettuale esterofilo ma, a differenza dell’ideologia, la paura è, come tutti i sentimenti, variamente esposta alle contingenze individuali e sociali che vengono percepite o fatte percepire. E’ mutevole, è instabile, è camaleontica e, il più delle volte, non sfocia in azioni politiche (cioè pianificate e coordinate) ma in episodi spontanei considerati di difesa in un certo momento e in un certo luogo: la fuga, l’atto violento, la sottomissione. La paura usata per fare politica Masse di popolazione che sono pervase da sentimenti sociali forti negativi (paura, odio) sono, come noto, più facilmente esposti alle manipolazioni politiche di qualcuno che freddamente pianifica azioni collettive mirate a raggiungere scopi specifici. L’indifferenza, l’apatia, non generano interesse verso qualcosa. La paura, l’odio, il risentimento sociale, sì. E se qualcuno offre risposte a questi sentimenti è facile che le risposte vengano prese sul serio. Senza rifletterci molto se vengono percepite come rassicuranti e risolutive del problema che genera il sentimento. E’ in queste fasi, in cui le società sono attraversate da grandi sentimenti sociali forti (specie la paura e l’odio), che alcuni individui, politicamente esposti, vengono considerati o il capro espiatorio o, all’opposto, i salvatori della patria. Con tutto quello che situazioni del genere comportano. Cosa sta succedendo in Italia e in Europa ? Stiamo assistendo, ormai da almeno tre decenni, a grandi cambiamenti politici, economici e demografici in Europa e in Italia. Tutti e tre questi fenomeni tengono banco alternandosi – a seconda dell’enfasi che i media di massa vi rivolgono – periodicamente e generando sentimenti diffusi di paura, frustrazione, scontento. Per quanto riguarda uno di questi tre fenomeni, l’immigrazione, io non sono molto propenso a credere che, in generale, gli italiani stiano scoprendosi razzisti nel senso ideologico che ho evidenziato prima. Sono molto più disposto a credere che questa generica ondata di accuse, minacce, tentativi di linciaggi, stomachevoli affermazioni rese sui social network siano più che altro dovute alla repulsione verso un fenomeno percepito come minaccioso. Siano, cioè, paura sociale. Paura della diversità, paura del perdere il proprio lavoro, paura per la sicurezza personale, paura per una situazione che viene giudicata incontrollabile e incontrollata. Non importa quanto reali siano queste paure. Importa quanto seriamente vengano percepite. E’ una cosa totalmente diversa dal razzismo, sebbene possa essere usata per fare razzismo e potrebbe sfociare nel razzismo (e vi sfocia anche in taluni casi, vedi l’uso schiavistico che viene fatto di molti immigrati di colore, e non solo, nelle piantagioni agricole di molte parti d’Italia). E’ razzismo, vera ideologia, invece quella che in alcuni casi si manifesta in alcuni Paesi d’Europa. Paesi storicamente colonialisti, quindi permeati (si studia a scuola, fin dai primi anni, in paesi come la Francia o la Gran Bretagna, il colonialismo come fenomeno di civilizzazione di popolazioni primitive e “selvagge”) da una ideologia fondata sulla superiorità culturale che diventa superiorità razziale (la pelle bianca contro quella scura). Oppure Paesi con tradizioni storiche dominanti (la Germania, alcuni paesi nati dallo smembramento dell’Impero asburgico). Non è propriamente razzismo neppure quello che esiste in alcuni Paesi europei la cui storia è segnata dalle dominazioni di paesi vicini (paesi baltici, Polonia). Questi paesi tendono a sviluppare politiche di autonomia rispetto ai paesi vicini che li hanno dominati per secoli – o per decenni – e vedono nell’immigrazione di massa (vera, presunta o potenziale) un indebolimento dell’identità nazionale e dell’autonomia politica e quindi una possibile maggiore esposizione agli appetiti di paesi vicini considerati paesi ostili (Russia, Germania). Come distinguere un razzista da uno che ha paura Non è una operazione particolarmente complicata. I due profili idealtipici hanno parti che si sovrappongono, ma le due figure non coincidono mai. Un razzista ha una discreta conoscenza della storia del Paese in cui vive, tende a dare a questa storia una aurea di santità, di superiorità, di grandezza. Considera il suo paese un organismo vivente dotato di un’anima, di uno spirito che resiste nei secoli indistruttibile benché malmesso a volte. Parla di “popolo”, di “patria”, di “civiltà” messi in pericolo dallo “straniero” in genere selvaggio, primitivo, violento. E inferiore. Per destino. Senza possibilità di riscatto. Condannato ad essere inferiore per sempre e dominato per sempre. Un individuo pervaso dalla paura sociale non arriva a questi livelli di sofisticazione intellettuale. Non perché sia cretino. Semplicemente non gli interessano questi ragionamenti. E’ un signore che vive del suo quotidiano, che sia brillante o che sia miserabile. Ma che si sente minacciato. Minacciato di perdere, in favore non degli “stranieri” ma degli “estranei”, quello che ha. Poco o molto che sia. Se si avventura in discussioni storiche o sociologiche non ha argomentazioni da proporre che non siano slogan insensati, frasi fatte, luoghi comuni. Dimostra grande disinteresse per tutto quello che si oppone alle sue paure ed accetta solo soluzioni radicali che lo rassicurino. Che sono quelle tipiche che tendono a ridurre il peso della paura: repulsione, fuga, violenza, rassegnazione. (T.C.)

L'Italia delle .....scorciatoie !

"C’è un’Italia in cui alberga un individualismo disilluso e amorale: quello che non fa conversare i valori individuali con i valori morali e che vede l’interesse pubblico in funzione del riconoscimento di un vantaggio individuale. È l’Italia in cerca di scorciatoie, che tenta di rifare il verso dei furbetti del quartierino, che cerca di emergere a qualsiasi costo e possibilmente in un colpo solo. È l’Italia del “particulare”, quella vischiosa che, pur di durare a lungo, non decide e fa ostruzione, che cinicamente si copre nelle protezioni clientelari, che predilige la rendita e i privilegi derivanti dalle nicchie protettive del mercato politico."

Ma .....non è che nel 1989 abbiamo sbagliato tutto?

E se avessimo sbagliato tutto in quel lontano 1989? E se avessimo preso un abbaglio comune? Mi riferisco alla caduta del Muro che riunì le due Germanie e che contestualmente vide la fine dell’URSS. Da come sono andate le cose da quel giorno verrebbe da pensare che sarebbe stato meglio lasciare tutto come stava. In fondo, la Germania fu divisa perché “protagonista” di due guerre a distanza di pochi anni e per quanto male aveva fatto a l’umanità intera. La fine dell’URSS poi ha sbilanciato nettamente gli equilibri dando agli Stati Uniti quel ruolo di “guida” e di “sceriffo del mondo” che gli USA non solo non meritano, ma che non hanno saputo in nessun modo valorizzare. Comportandosi da potenza imperiale “ignorante” della storia e delle dimensioni culturali dei popoli. In poche parole chi pensava che il ruolo dell’URSS fosse inutile, anche orribile, dovrebbe riflettere sul fatto che grazie all’equilibrio che c’era tra i due sistemi probabilmente avremmo evitato il caos nell’ Iraq, In Siria, nello Yemen, in Libia, e avremmo uno Stato d’Israele meno aggressivo nei confronti della Palestina. Insomma, questa “esportazione della democrazia” non sta andando a buon fine. La democrazia, lo vediamo, sta finendo stritolata dalla dittatura del debito anche da noi, e non se ne vede nessun effetto in Medioriente. Va detto, poi, principalmente, che l’Europa sarebbe potuta crescere senza dover agire sotto dettatura del capitalismo statunitense, come avviene oggi. Con la caduta dell’URSS, gli USA si sono impossessati del mondo, hanno egemonizzato un po’ tutto avendo le mani libere e senza lo spauracchio “oltre cortina”. Non a caso la crisi finanziaria mondiale, oggi trasformatasi in crisi del debito sovrano, è partita proprio da quelle latitudini, con la caduta di tanti colossi della finanza ai quali l’Europa aveva dato credito e investimenti. Non è una “nostalgia” da ex comunista quella che mi fa pensare così, è solo un gioco mentale che ho voluto fare per immaginarmi cosa abbiamo guadagnato e cosa perso da quel 1989. Certo, la Germania unita è altra cosa rispetto a quando doveva fare i conti con la DDR. Poi, torno alla realtà e, nel darmi una spiegazione per quanto è avvenuto, mi rispondo dicendo che quelle intenzioni messe in atto, il crollo del muro e dell’URSS, fossero inevitabili, ma, allora, non si è tenuto conto il cambiamento veloce dei tempi e con essi l’apparire di classi dirigenti che non erano in grado di raccogliere un cambiamento così importante ed impegnativo. Quei cambiamenti erano evidentemente stati pensati da uomini diversi, uomini che ritenevano o di consegnare questi cambiamenti ad una classe dirigente alla loro altezza, con la loro stessa statura morale, politica e sociale. E invece, dopo il crollo del Muro, insieme a lui sono crollate le nuove classi dirigenti: questo, purtroppo, non riguarda solo il nostro paese. E’ da qui che dobbiamo ripartire, da una nuova classe dirigente che guardi indietro perché solo la storia può indicarci la via giusta per andare avanti. Certamente, quella attuale ha fallito in pieno: c’è da sperare che presto faccia le valigie e lasci tutto il patrimonio che la storia europea e mondiale ci ha lasciato a chi ne farà tesoro per creare un mondo più giusto, sempre con meno guerre e con meno disperati in fuga da esse e da dittatori affamati di potere e di sangue. (V.P.)

giovedì 10 settembre 2015

I Migranti e le ragioni della bontà tedesca.

Migliaia di persone hanno ripreso in questi giorni il loro viaggio verso la Germania dall’Ungheria. In Germania, “eserciti” di volontari si sono mobilitati nelle stazioni di Francoforte e Monaco di Baviera, nel sud e nell’ovest del Paese, per accogliere i nuovi arrivati con il cartello “Benvenuti” in Germania e offrire loro cibo, abiti e coperte. Un gesto commovente, se lo si vede dal lato della popolazione, capace di un’umanità da cui vi è solo da imparare. Gesti come questi ci insegnano che non tutto è perduto. Ma se si analizzano le ragioni profonde? Se si guarda al contegno del governo tedesco? La prospettiva cambia decisamente. La Germania della Merkel, la stessa che si sta comprando la Grecia e riducendo alla fame il popolo greco; la stessa che fa vivere milioni di cittadini tedeschi con contratti “mini-job” a 400 euro al mese, senza diritti e senza dignità; la stessa che, pochi mesi fa, faceva piangere – ricordate la patetica scena della signora Merkel? – la ragazzina palestinese, spiegandole che non poteva essere accolta; ecco, quella Germania ora vuole dare pure lezioni all’Europa, accogliendo con striscioni di benvenuto e applausi i profughi e i migranti. Buonismo? Ospitalità? Niente affatto! Coerente con se stessa, la Germania giubila all’arrivo del nuovo “esercito industriale di riserva” di lavoratori a basso costo, disposti a fare ogni lavoro al ribasso e, così facendo, ad abbassare il costo della manodopera. Giubila all’idea dell’uso ideologico che può fare di questo gesto, preparando le condizioni ideali, nell’opinione pubblica, per un prossimo “intervento umanitario” con “bombardamento etico” nella Siria di Assad. Già lo sappiamo, ma giova ricordarlo. Alimentando traffici di esseri umani ridotti a merci e biechi interessi padronali, l’esercito industriale di riserva dei migranti rappresenta un immenso bacino di manodopera a buon mercato, peraltro estranea alla tradizione della lotta di classe: permette di esercitare una radicale pressione al ribasso sui salari dei lavoratori, spezza l’unità – ove essa ancora sussista – nel movimento operaio e, ancora, consente ai padroni di sottrarsi ai crescenti obblighi di diritto al lavoro. L’immigrazione è oggi usata dal capitale come strumento nella lotta di classe: al capitale non interessa integrare i migranti; interessa, semmai, usare i migranti come nuovi schiavi e poi anche come arma per disintegrare i non-migranti, rimuovendo loro i pochi diritti superstiti. Occorre ripeterlo. Non è qui in discussione la buona fede e l’ospitalità della gente tedesca, che ha dato prova di grande umanità e ha, per così dire, riscattato l’immagine della Germania degli ultimi tempi. In questione è, invece, la politica generale della Germania della Merkel, le sue logiche sotterranee. Chi vivrà, vedrà.

mercoledì 9 settembre 2015

LA MIA EUROPA !

Tanti cittadini europei stanno mostrando accoglienza e solidarietà nei confronti delle tante persone in fuga verso la speranza di un futuro migliore. Europei che non chiedono “chi sei?” ma “di cosa hai bisogno?” Una attesa scintilla di umanità, che potrebbe spazzare via anni di indifferenza, violenza e razzismo sbandierati e praticati da molti governi. Quei cittadini sono la mia Europa !

martedì 8 settembre 2015

Ah! Quei bravi cattolici che vanno tutte le domeniche in chiesa!

Nel vicentino un prete di un piccolo paesino ha chiamato a raccolta i fedeli della propria parrocchia per organizzare l'accoglienza di pochi profughi da sistemare in una canonica abbandonata da anni. La risposta? Un coro avvelenato di no, di «sono musulmani, no nella nostra chiesa!», di «prima i nostri!». Tanto da far dire al prete «Sono stato sommerso da urla da stadio, ma io non mi arrendo». Eccoli, questi 'fedeli', questi che si dicono «bravi cattolici». Sono quelli che si battono «per le radici cristiane», per i crocifissi e per il presepe. Sono quelli che vanno tutte le domeniche in chiesa a riempirsi la bocca di parole come «amore» e «fratellanza». Sono gli stessi che si preparano a lunghi viaggi per scendere in piazza a contestare l'amore e la felicità altrui. Sono quelli pluri-divorziati e risposati che cianciano di «famiglia tradizionale». Sono quelli che esultano per i migranti affogati in mare e che si ribellano all'accoglienza di poche persone che fuggono dalla guerra. Il tutto nel nome del Vangelo. Che però non dice nulla di tutto ciò. Anzi, dal Vangelo secondo Matteo (non Salvini): «Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato». Io sono credente, e sono sicuro che queste persone ,se mai si pentiranno,saranno accolte anche dalla misericordia divina. Ma una cosa è certa: le loro coscienze, avvelenate da egoismi e ipocrisia, prima o poi a loro presenteranno il conto. E sarà impietoso!

lunedì 7 settembre 2015

Cari insegnanti...voglio guardarli bene i vostri occhi !

Che cosa avrei voluto sentirmi dire il primo giorno di scuola dai miei professori o cosa vorrei che mi dicessero se tornassi studente? Il racconto delle vacanze? No. Quelle dei miei compagni? No. Saprei già tutto. Devi studiare? Sarà difficile? Bisognerà impegnarsi di più? No, no grazie. Lo so. Per questo sto qui, e poi dall’orecchio dei doveri non ci sento. Ditemi qualcosa di diverso, di nuovo, perché io non cominci ad annoiarmi da subito, ma mi venga almeno un po’ voglia di cominciarlo, quest’anno scolastico. Dall’orecchio della passione ci sento benissimo. Dimostratemi che vale la pena stare qui per un anno intero ad ascoltarvi. Ditemi per favore che tutto questo c’entra con la vita di tutti i giorni, che mi aiuterà a capire meglio il mondo e me stesso, che insomma ne vale la pena di stare qua. Dimostratemi, soprattutto con le vostre vite, che lo sforzo che devo fare potrebbe riempire la mia vita come riempie la vostra. Avete dedicato studi, sforzi e sogni per insegnarmi la vostra materia, adesso dimostratemi che è tutto vero, che voi siete i mediatori di qualcosa di desiderabile e indispensabile, che voi possedete e volete regalarmi. Dimostratemi che perdete il sonno per insegnare quelle cose che – dite – valgono i miei sforzi. Voglio guardarli bene i vostri occhi e se non brillano mi annoierò, ve lo dico prima, e farò altro. Non potete mentirmi. Se non ci credete voi, perché dovrei farlo io? E non mi parlate dei vostri stipendi, del sindacato, della Gelmini, delle vostre beghe familiari e sentimentali, dei vostri fallimenti e delle vostre ossessioni. No. Parlatemi di quanto amate la forza del sole che brucia da 5 miliardi di anni e trasforma il suo idrogeno in luce, vita, energia. Ditemi come accade questo miracolo che durerà almeno altri 5 miliardi di anni. Ditemi perché la luna mi dà sempre la stessa faccia e insegnatemi a interrogarla come il pastore errante di Leopardi. Ditemi come è possibile che la rosa abbia i petali disposti secondo una proporzione divina infallibile e perché il cuore è un muscolo che batte involontariamente e come fa l’occhio a trasformare la luce in immagini. Ci sono così tante cose in questo mondo che non so e che voi potreste spiegarmi, con gli occhi che vi brillano, perché solo lo stupore conosce. E ditemi il mistero dell’uomo, ditemi come hanno fatto i Greci a costruire i loro templi che ti sembra di essere a colloquio con gli dei, e come hanno fatto i Romani a unire bellezza e utilità come nessun altro. E ditemi il segreto dell’uomo che crea bellezza e costringe tutti a migliorarsi al solo respirarla. Ditemi come ha fatto Leonardo, come ha fatto Dante, come ha fatto Magellano. Ditemi il segreto di Einstein, di Gaudì e di Mozart. Se lo sapete, ditemelo. Ditemi come faccio a decidere che farci della mia vita, se non conosco quelle degli altri. Ditemi come fare a trovare la mia storia, se non ho un briciolo di passione per quelle che hanno lasciato il segno. Ditemi per cosa posso giocarmi la mia vita. Anzi no, non me lo dite, voglio deciderlo io, voi fatemi vedere il ventaglio di possibilità. Aiutatemi a scovare i miei talenti, le mie passioni e i miei sogni. E ricordatevi che ci riuscirete solo se li avete anche voi i vostri sogni, progetti, passioni. Altrimenti come farò a credervi? E ricordatemi che la mia vita è una vita irripetibile, fatta per la grandezza, e aiutatemi a non accontentarmi di consumare piccoli piaceri reali e virtuali, che sul momento mi soddisfano, ma sotto sotto sotto mi annoiano. Sfidatemi, mettete alla prova le mie qualità migliori, segnatevele su un registro, oltre a quei voti che poi rimangono sempre gli stessi. Aiutatemi a non illudermi, a non vivere di sogni campati in aria, ma allo stesso tempo insegnatemi a sognare e ad acquisire la pazienza per realizzarli quei sogni, facendoli diventare progetti. Insegnatemi a ragionare, perché non prenda le mie idee dai luoghi comuni, dal pensiero dominante, dal pensiero non pensato. Aiutatemi a essere libero. Ricordatemi l’unità del sapere e non mi raccontate solo l’unità d’Italia, ma siate uniti voi dello stesso consiglio di classe: non parlate male l’uno dell’altro, vi prego. E ricordatemelo quanto è bello questo Paese, parlatemene, fatemi venire voglia di scoprire tutto quello che nasconde prima ancora di desiderare una vacanza a Miami. Insegnatemi i luoghi prima dei non luoghi. E per favore, un ultimo favore, tenete ben chiuso il cinismo nel girone dei traditori. Non nascondetemi le battaglie, ma rendetemi forte per poterle affrontare e non avvelenate le mie speranze, prima ancora che io le abbia concepite. Per questo, un giorno, vi ricorderò".

martedì 1 settembre 2015

Quello che ci rende ricchi...

E' la cognizione del dolore che ci rende umani. Quella che ci fa vedere le cose in modo diverso. Dalla parte di chi soffre, dalla parte di chi è perduto, malato, oppresso. E che ci rende ricchi per un sorriso, per la stretta di mano di un amico. Per un piccolo momento di felicità. Cose che questa crisi ci sta facendo dimenticare. E noi vogliamo e dobbiamo ricordarle con maggiore forza, allora. Con maggiore speranza e voglia di essere e continuare a essere umani.

lunedì 31 agosto 2015

Il razzismo? E' legato a un basso quoziente intellettivo !

Se si ha un basso quoziente intellettivo da piccoli e' piu' probabile sviluppare pregiudizi da adulti. Lo afferma uno studio pubblicato dalla rivista Psychological Science, secondo cui chi e' meno intelligente e' anche piu' propenso ad avere visioni politiche conservatrici. La ricerca si e' basata su un database britannico di piu' di 15 mila soggetti, a cui e' stato misurato il Qi all'eta' di 10 o 11 anni e che sono stati analizzati una volta superati i 30. L'adesione a visioni conservatrici e' stata verificata tramite la misura dell'accordo con frasi del tipo 'Le mamme lavoratrici sono una rovina per le famiglie', o 'La scuola dovrebbe insegnare ad obbedire all'autorita'', mentre i pregiudizi sono stati studiati attraverso frasi come 'Io non lavorerei mai con persone di altre razze'. Il risultato e' stato che i bambini con quoziente intellettivo piu' basso hanno mostrato le maggiori tendenze al razzismo, si sono detti mediamente piu' d'accordo degli altri con le frasi conservatrici e in generale sono risultate fra quelle con meno contatti con persone di altre razze: "Questo ovviamente non vuol dire che tutti i conservatori sono stupidi e i liberali intelligenti - spiega Gordon Hodson della Brock University in Ontario - qui si parla di tendenze medie: possiamo dire che in generale gli uomini sono piu' alti delle donne, ma non si puo' dire se si prende un uomo a caso e una donna a caso quale dei due sia piu' alto".

La Storia......sono loro!!!

Ma davvero qualcuno pensa che chi scriverà la Storia andrà in cerca di selfie e bei tramonti??? La questione etica non è se pubblicare o meno le foto dei bambini morti sulla spiaggia. La questione etica è che non dovevano morire. Quelle foto dicono la realtà, l'accaduto, il fatto, la cronaca. Una cronaca che a noi fa star male ma a loro li ha fatti morire. Quando qualcuno scriverà la Storia di questo nostro tempo,per un manuale di scuola ad esempio, quale foto pensiamo che utilizzerà: i nostri selfie sulle spiagge, i tramonti di cui abbiamo riempito i nostri profili, o i corpi di quei bambini? La storia siamo noi. E' vero. Ma da alcuni anni la scrivono quei bambini!

Che bello.....leggere!!!

Leggere di fronte agli altri, non avere paura di sbagliare e di correggersi e scoprire, riga dopo riga e pagina dopo pagina, il piacere della lettura: ecco l'esperienza fatta, in un pomeriggio di agosto, dai bambini di una cittadina americana, che hanno avuto la possibilità di barattare un taglio di capelli con una storia letta ad alta voce. È successo alcuni giorni fa a Dubuque, in Iowa, in occasione della seconda edizione del Back to School Bash, la festa annuale che celebra l'approssimarsi del nuovo anno scolastico e che promuove l'incontro e la condivisione delle risorse tra le famiglie dei piccoli studenti della città. Per incoraggiare i bambini delle scuole elementari a leggere e spronarli a non avere paura di farlo davanti ad un pubblico, Courtney Homes, barbiere e padre di due figli, ha lanciato ai clienti più "giovani" una proposta davvero singolare: per un intero pomeriggio, avrebbe tagliato i capelli gratis a tutti coloro che avessero accettato di leggergli ad alta voce delle storie.

venerdì 28 agosto 2015

E l'amore guardò il tempo e rise !

E l’amore guardò il tempo e rise, perchè sapeva di non averne bisogno. Finse di morire per un giorno, e di rifiorire alla sera, senza leggi da rispettare. Si addormentò in un angolo di cuore per un tempo che non esisteva. Fuggì senza allontanarsi, ritornò senza essere partito, il tempo moriva e lui restava. (L.P.)

sabato 22 agosto 2015

Interrompere il legame......subito !

E ora ? Bisogna commissariare la parrocchia di S.Giovanni Bosco!!! La chiesa di papa Francesco ha scomunicato i mafiosi, ha spinto 'ndranghetisti in carcere a non presentarsi alla messa, temendo che il solo partecipare potesse significare agli occhi dei vertici dell'organizzazione una dichiarazione di distanza dalle cosche. Ora la chiesa di Francesco deve fare un nuovo passo: commissariare la chiesa di San Giovanni Bosco. Non so se le regole vaticane prevedono misure simili, non so se è il termine adatto, non mi riferisco al diritto canonico. Sarebbe però un gesto in grado di interrompere il legame tra sacramenti religiosi e sacramenti mafiosi. Il sacramento mafioso è l'utilizzo dei rituale religioso per avere un'investitura pubblica, per trovare uno spazio legittimo per manifestare se stessi e la propria forza e autorità. Don Peppino Diana ne fece la sua battaglia: quella di impedire che battesimi, comunioni, cresime divenissero occasioni di autocelebrazione criminale. Fu proprio questa sua scelta che lo condannò a morte.