lunedì 5 febbraio 2018

IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO DOPO IL 1945...IL GRANDE SIGNIFICATO DI UN'ADESIONE!(Prima Parte)


(Prima parte)
Il 1945 stabilisce, nella cronologia del movimento comunista europeo, uno spartiacque. Come ha scritto Donald Sassoon «i venti radicali sollevati dalla guerra, e sulla cui forza i comunisti occidentali avevano puntato per il loro futuro politico, si erano placati» (Sassoon 2000, p. 128). È la prospettiva della rivoluzione, che, dopo il 1945, assume tratti molto meno marcati che nel periodo precedente. Essa diventa un obiettivo rimandato a data da destinarsi, una sorta di miraggio finale, spostato a un futuro non definibile con precisione. È per questo che, in un lasso temporale ridotto, i partiti comunisti europei mutano le proprie strutture organizzative, cambiando la loro natura di partiti di avanguardia, composti da un numero ridotto di militanti militarizzati e organizzati in gruppi ristretti, a partiti di massa, con migliaia – milioni – di iscritti e con una disciplina più allentata. Questo passaggio epocale produce ovviamente un mutamento delle coordinate di vita dei militanti comunisti e ne riplasma la quotidianità.
Prendiamo ora in esame alcuni aspetti concreti della militanza comunista. Innanzi tutto la formazione dei giovani, il loro cosiddetto reclutamento.
Col trascorrere del tempo, ossia col passaggio dalla clandestinità al lavoro politico alla luce del sole, i partiti comunisti occidentali – PCI e PCF in testa – smettono di concepire il lavoro fra le masse giovanili come uno strumento di irreggimentazione e tendono piuttosto a concepirlo come mezzo per organizzare i giovani in una comunità politica – quella delle Federazioni giovanili comuniste – tendenzialmente meno rigida di quella del partito e più «laica». Le Federazioni giovanili diventano, quindi, dopo essere state durante il periodo della clandestinità un bacino di militanza dal quale attingere, un luogo politico nel quale affinare la propria adesione al comunismo, uno spazio in cui coniugare gli aspetti formativi con quelli della ricreazione. Un luogo, insomma, nel quale sedimentare e strutturare la scelta individuale di diventare comunisti.
|Si veda C. Pennentier - B. Pudal, Du parti bolscevic au parti stalinien, in M. Dreyfus et al. (2000)|.
Va però notato che, anche nella memorialistica di coloro che sono diventati comunisti, si possono individuare almeno due differenti letture autobiografiche dell’ingresso nel partito. Una è quella che ci viene dalle memorie di Giorgio Amendola, che significativamente sono intitolate "Una scelta di vita" (Amendola 1976), l’altra è invece quella che si può intravvedere nell’autobiografia di un altro comunista italiano, meno importante di Amendola, Paolo Robotti, che, in linea con una sorta di determinismo, che molto spesso innerva le narrazioni autobiografiche dei militanti della generazione che potremmo definire terzinternazionalista, intitola la sua autobiografia "Scelto dalla vita "(Robotti 1980). Si tratta della testimonianza di una diversa concezione del ruolo della propria soggettività, che induce alcuni militanti a considerarsi come dei «granelli di sabbia trasportati dal grande vento della storia» (Andreucci 2005, p. 240), pur rendendosi protagonisti di un fatto come l’adesione ad un partito comunista che, come ha scritto Ignazio Silone, «non era da confondersi con la semplice iscrizione a un qualsiasi partito politico. Per me, come per molti altri, era una conversione, un impegno integrale» (Silone 1965, p. 81 e Andreucci 2005, p. 241), una vera e propria «seconda nascita», hanno scritto Pennentier e Pudal riguardo al PCF.
Esiste anche una raccolta di testimonianze di diciotto dirigenti del PCI, proprio riguardo la loro scelta.
Innanzitutto c’è chi aderisce per tradizione familiare; chi invece diventa comunista dopo essere venuto a contatto con militanti di partito nei luoghi di lavoro, dove gli individui sperimentano personalmente lo sfruttamento; c’è invece chi sceglie di aderire al partito perché condivide la piattaforma ideale e la concezione del mondo e della storia contenuta nel suo apparato ideologico. Lungo queste linee si distribuiscono tante storie individuali, diverse le une dalle altre, ma in fondo facilmente catalogabili sotto le insegne di queste tre tipologie.
Nelle ricostruzioni autobiografiche questi tre momenti tendono però ad essere fusi in un’unica spinta verso il comunismo. Se Maurice Thorez non esita a descrivere il processo che lo avrebbe condotto alla militanza come un «éveil» (Thorez 1960, pp. 7-42), il vicesegretario del PCI Pietro Secchia – classe 1903 –, il cui avvicinamento al comunismo avviene più per adesione ideologica alla piattaforma politica delle organizzazioni del movimento operaio che non per altre vie, tende comunque, nelle sue ricostruzioni autobiografiche, a calcare la mano su altri aspetti, quali, appunto, l’aver scelto il comunismo come risposta alle ingiustizie subite e allo sfruttamento patito da sé o dalla sua famiglia.
Si tratta della volontà, più o meno inconscia, di rappresentare la propria singola esperienza all’interno di una griglia interpretativa classica che si fonda sul determinismo storico più spinto: patito lo sfruttamento di classe, l’approdo al comunismo diventa uno sbocco naturale, frutto della presa di coscienza della propria condizione, del disincanto. È, insomma, il tentativo di inserire la propria esperienza personale in una storia che corre inesorabilmente verso il socialismo. Spesso l’adesione è mediata da quello che Koestler chiama un «apostolo», una sorta di mentore, qualcuno che svolge contemporaneamente il ruolo di persuasore e di risolutore di dubbi (Koestler 1990, p. 277).

Nessun commento:

Posta un commento