lunedì 5 febbraio 2018

IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO: IL GRANDE SIGNIFICATO DI UN'ADESIONE! (Terza Parte)



LA MILITANZA: LO SPIRITO DI SACRIFICIO,
LA LOTTA PER UN MONDO DI LIBERI E UGUALI,
LA GIOIA DI ESSERE!


La condizione nella quale vive il militante comunista è quella di «mobilitazione permanente» (Bellassai 2000, p. 50), di «iperattivismo» che significa «spirito di sacrificio, l’emulazione, l’anti-individualismo, l’attaccamento al partito, la serietà, sono i principali elementi che dotano di spessore etico-politico l’attività organizzativa» (Bellassai 2000, p. 50). Proprio lo spirito di sacrificio è ciò che fa sì che il militante sia un «comunista a tempo pieno» che dedica tutta la vita al partito, senza confondere mai «tra il suo essere comunista e l’aspirazione a “fare carriera nel partito”»11. E poi fondamentale è stata la convinzione diffusa fra i militanti di ogni livello, di essere parte di un unico movimento mondiale. E proprio questa convinzione, introiettata nella profondità delle coscienze private, ha avuto un’influenza determinante nel plasmare e uniformare gli aspetti più intimi della soggettività. Ciò è avvenuto per scelta e non per imposizione. I militanti hanno infatti scelto di lasciare entrare nella propria vita quotidiana quello che potremmo definire lo stile di vita comunista. Hanno insomma accettato di spostare l’asse dall’individuale al collettivo, dal singolare al plurale, decidendo di rinunciare ad alcuni segmenti della propria individualità – e della propria intimità: si pensi all’autocritica pubblica che i militanti erano costretti a fare in alcune occasioni particolari – per sentirsi pienamente parte di un processo storico. Come ha scritto Hobsbawm, riflettendo sulla sua militanza nel Partito comunista britannico, «il partito aveva un tale prestigio che riusciva a far fare cose che gli altri non avrebbero potuto chiedere» (Hobsbawm 2002, p. 153).
Ciò che conta, in una riflessione come quella che sto abbozzando, non è infatti se davvero i militanti siano diventati a tutti gli effetti parte del farsi storico. Ciò che conta è che la loro vita è stata plasmata volontariamente per sentirsi parte di una storia.
Ci sono però enormi differenze fra la militanza di chi aderisce ad un partito comunista che lotta in una società capitalistica per istaurare il socialismo e chi invece aderisce ad un partito comunista in un paese dove il socialismo, pur fra mille contraddizioni, è l’orizzonte esistenziale condiviso da tutti. Paradossalmente il fatto di sentirsi coinvolti in un movimento che vorrebbe rivoluzionare la società costituisce un elemento di coesione più forte che non il fatto di sentirsi parte di una comunità che l’ha già rivoluzionata. E in questo sentire comune è proprio quell’elemento dell’«iperattivismo», della continua tensione verso un obiettivo da raggiungere che tiene uniti, che uniforma gli stili di vita e le culture politiche e che crea una comunità, una sub-società. L’appartenere a questa comunità permette al militante di percepire come una grande libertà il fatto di privarsi di alcuni segmenti della propria libertà individuale in favore di una libertà collettiva che vale più di qualsiasi altra cosa, anche della propria realizzazione come individuo.
Questo è il tratto saliente che caratterizza e accomuna gli stili di vita e la cultura materiale dei comunismi europei.
Si è fatto cenno a come alcuni momenti della militanza siano scanditi da un calendario particolarmente fitto ma anche piuttosto invasivo della dimensione individuale e privata. Se da un lato si tratta di un retaggio della militarizzazione che ha segnato la nascita dei partiti comunisti europei, dall’altro è anche il prodotto di un sistema organizzativo che, in particolare in alcuni momenti del dopoguerra e segnatamente negli anni Cinquanta, è stato particolarmente rigido.
La vita dei militanti dentro il PCI è stata dunque tutt’uno con la vita del partito, con la sua storia. In particolare la vita di sezione è quella più intrecciata alle vicende della storia del comunismo, tanto da rifletterne le fasi: durante i momenti di maggiore tensione militante essa è il fulcro dell’azione del partito. È col passare del tempo, con la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, per non parlare degli anni Novanta, che essa perde smalto, così come lo perde il PCI. Negli anni del riflusso nel privato la sezione perde progressivamente il suo ruolo aggregatore e diviene soltanto più un luogo dove svolgere riunioni. Per poi approdare al drammatico biennio 1989-’91 che come un terremoto travolge le vicende dei partiti comunisti europei.
Guardare alle vicende minute dei partiti comunisti europei – e del PCI in particolare –, alle loro articolazioni locali, ai momenti di socialità politica nelle periferie consente di leggere la storia del comunismo fuori da schematismi semplificatori che altro non fanno che alimentare le mille retoriche sulla sua storia che si sono affollate negli anni.
Certo, i partiti comunisti europei, nella seconda metà del Novecento, ma ciò vale anche per il periodo precedente, hanno avuto significative differenze. Si tratta di differenze di linea politica, di struttura, di vicende, sebbene il Partito comunista italiano abbia rappresentato per tutti una sorta di modello, di punto di riferimento: si pensi che nel PCF c’era addirittura una corrente che cercava di «italianizzare» il partito. Eppure, nonostante queste differenze, le coordinate esistenziali dei militanti comunisti sono quasi sovrapponibili o, almeno, i punti di somiglianza sono molto più numerosi delle differenze.
Questo fenomeno può essere interpretato come un effetto della predominanza di una sorta di internazionalismo che potremmo definire «dal basso», sulla componente nazionale dei partiti comunisti: «La nostra cellula era una delle tante migliaia di Berlino, e delle centinaia di migliaia di unità di base della rete comunista di tutto il mondo» (Koestler 1991, p. 19), scrive Koestler.
Se le varie specificità nazionali hanno infatti prodotto linee politiche in molti casi sensibilmente diverse fra un partito e l’altro, il sentimento diffuso e profondamente radicato nei militanti di essere e di sentirsi parte di un’unica comunità mondiale, ha avuto l’effetto di uniformare gli stili di vita quotidiani dei militanti, fino a produrre un unico, globale, stile di vita comunista, che è il prodotto di una comune e globale cultura politica materiale. E questo stile di vita è il prodotto di una volontà di segnalare la propria appartenenza a una comunità politica attraverso una quasi completa fusione fra il privato e il pubblico, è il desiderio di sentirsi costruttori di quell’uomo nuovo che il comunismo voleva realizzare, partendo dall’individualità delle soggettività.
Col trascorrere del tempo ciò che era stato «una scelta di vita» diventa qualcosa di diverso, di molto meno totalizzante e di molto meno solido. Gioca un ruolo l’individualismo radicale che matura dopo il Sessantotto e fra gli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta i partiti politici perdono il significato sociale che avevano avuto durante il Novecento e ne assumono un altro molto più sfuggente, dai tratti indefiniti, mutevoli e incerti. Le comunità politiche si lacerano, dilaniate dalle spinte centrifughe dell’individualismo. Accade anche ai partiti comunisti che dovranno, di lì a poco, fare i conti con la fine di una storia, quella del cosiddetto socialismo realizzato, che durava da quel lontano 1917, che aveva rappresentato per più di una generazione di militanti non soltanto un evento fondativo e un mito, ma un fulmine che in pochi istanti aveva incenerito la loro vecchia vita e ne aveva fatta nascere una nuova, all’insegna del comunismo.
La militanza, così come l’ho intesa in questo intervento, è stata il prodotto di una cultura politica materiale che è un fenomeno pienamente novecentesco. E ha attraversato tutto il secolo con caratteristiche ben definite. Come hanno scritto Toni Negri e Michael Hardt «in questo lungo periodo [il Novecento], l’attività del militante consisteva, prima di tutto, in pratiche di resistenza contro lo sfruttamento capitalistico in fabbrica e nella società. Essa consisteva inoltre (attraverso, ma anche oltre la resistenza) in una costruzione collettiva e nell’esercizio di un contropotere capace di destrutturare il potere capitalistico e di contrapporgli un programma alternativo di governo» (Hardt - Negri 2002, p. 380). Ma la militanza novecentesca e, quindi, la cultura politica materiale che la sostanziava, non ebbero solo come orizzonte d’azione la lotta politica per creare «un mondo di liberi ed eguali». Esse furono anche capaci di «contrapporre la gioia di essere, alla miseria del potere» (Hardt - Negri 2002, p. 382).

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