lunedì 5 febbraio 2018

IL PARTITO COMUNISTA ITALIANO DOPO IL 1945...IL GRANDE SIGNIFICATO DI UN'ADESIONE!(Seconda Parte)


(Seconda parte)
L'UOMO "NUOVO" E LA DIFFERENZA COMUNISTA!
LE FESTE DELL'UNITA'.
LA SEZIONE DEL PCI :LUOGO DI CRESCITA UMANA!
Una volta compiuta la scelta dell’adesione, iniziava per il militante una sorta di periodo di affinamento della scelta stessa, di «apprentissage» (Thorez 1960, pp. 41-80) attraverso la lettura di alcuni libri che finivano per divenire delle vere e proprie Bibbie che i militanti si scambiavano e custodivano gelosamente.
Per quanto riguarda il ruolo del «battesimo» comunista, ossia del tesseramento e dell’adesione al partito, va notato, come è stato scritto, che «Se il “battesimo” dava o confermava la fede, l’attivismo ne verificava l’intensità: quindi fondava i meriti e stabiliva le graduatorie di importanza tra i compagni nelle piccole gerarchie, quasi informali, di cellula o di sezione e nelle più grandi gerarchie provinciali e regionali» (Marino 1991, p. 41).
Dopo essere entrati nel partito, infatti, i militanti divengono parte di una comunità e di un progetto pedagogico volto a creare un «uomo nuovo» che doveva essere la base «di un partito di massa, finalmente riscattato dal vecchio sovversivismo rivoluzionario, che evitasse comunque di risolversi in una formula organizzativa interclassista» (Marino 1991, p. 17).
I tratti fondamentali di questo uomo nuovo dovevano essere innanzitutto il rigore morale e l’altruismo. Un altruismo di cui i militanti danno costante prova durante vari passaggi della vita di partito. Si pensi al lavoro volontario, ad esempio, in occasione delle feste dell’Unità. Un dato: nei 10 giorni della festa dell’Unità di Milano del ’77 sono state 174.000 le ore di lavoro volontario dei militanti. Si tratta di un fatto che non sta soltanto a rappresentare la generosità dei militanti e la loro dedizione al partito: è uno dei segni di quella «differenza comunista» che, lungi dall’essere soltanto una retorica, è stata una realtà che ha permesso ai partiti comunisti di avere uno sviluppo storico diverso da quello dei partiti «borghesi».
La diffusione militante del quotidiano del partito, ad esempio, accomuna il Partito comunista francese a quello italiano. Il PCI infatti mutuò dal suo omologo francese, il PCF, l’usanza di diffondere porta a porta «l’Unità», così come i francesi distribuivano «L’Humanité». E questa scelta si trasformò in un vero e proprio rito collettivo laico, da celebrarsi tutte le domeniche, una sorta di «Messa di massa», è stata definita da Novelli(Novelli 2006, p. 36).
Alla diffusione militante del giornale partecipavano tutti: giovani, operai, contadini, intellettuali, semplici militanti e dirigenti. Era un’iniziativa che negli anni Cinquanta e Sessanta consentiva di diffondere, in un solo giorno, un milione di copie dell’«Unità». Ma era anche una vera e propria indagine sociologica. La diffusione porta a porta del giornale era un’occasione preziosa per venire a contatto con centinaia di persone in una sola giornata e dunque un’opportunità per rapportarsi non con le «masse», concetto di per sé sfuggente e ambiguo, ma con gli uomini e con le donne in «carne e ossa» che componevano proprio quelle tanto mitizzate masse. I diffusori del quotidiano divenivano quindi «migliaia di termometri umani piantati sul territorio» (Novelli 2006, p. 38).
Sulle feste dell’«Unità» esistono interessanti documentari!
Proprio le feste dell’Unità, come le feste dell’«Humanité» in Francia, divengono presto dei momenti di aggregazione ben oltre i confini del partito che le organizza. Se da un lato il loro successo può essere attribuito, come verrebbe più semplice affermare, al carattere ludico delle manifestazioni o alla possibilità di godere di buon cibo a prezzi economici, in realtà questo successo affonda le radici in un progetto politico. Si tratta infatti del risultato della scelta, che i partiti comunisti compiono nel secondo dopoguerra, di divenire dei catalizzatori di popolo, degli attori politici in grado di coniugare la «grande politica» con l’aggregazione collettiva, i momenti rituali con quelli ludici, il tutto all’interno di un grande progetto egemonico, teso a comunistizzare democraticamente larghi strati della popolazione.
È una tradizione, questa delle feste politiche, che, sia in Francia sia in Italia, è radicata nelle culture del movimento operaio da ben prima che questo divenisse comunista. Ma è con la nascita dei partiti comunisti e, in particolare col loro sviluppo di massa durante il secondo dopoguerra, che le feste dei giornali di partito divengono qualcosa di più di un momento di svago. Divengono infatti, da un lato uno degli strumenti che i partiti hanno a disposizione per intercettare persone con le quali altrimenti non potrebbero venire a contatto, impiegando i canali di comunicazione classici, dall’altro un mezzo per dare sfoggio della loro potenza politica e organizzativa.
Il luogo in cui però si svolge la maggior parte della vita di partito di un militante è la sezione. Ed è un vero e proprio mondo, pieno di articolazioni politiche e personali, oltre che la base di quella solida piramide che è la struttura del partito.
Nel 1946 la vita delle sezioni del PCI, dopo il ventennio fascista, riprende a pieno ritmo e la sezione diventa «l’organismo caratteristico del ritorno alla vita legale, all’attività rivolta alla luce del sole».
Per il PCI le sezioni, nel secondo dopoguerra, sono dei luoghi di crescita umana, prima che politica. Sono i luoghi in cui, in particolare nel Nord, si viene a contatto con persone che provengono, per immigrazione, da tutt’Italia, ognuno col suo dialetto, con le sue usanze. La sezione è dunque il crocevia nel quale si interescano le esistenze dei militanti. Esistenze scandite da appuntamenti fissi, che finiscono per determinare un’agenda di vita che è tutt’uno con l’agenda della militanza.
La ricostruzione dell’organizzazione legale del partito ha un ritmo velocissimo e nel 1950 il PCI può contare già su diecimila sezioni distribuite – sebbene non uniformemente – in tutto il Paese. Si tratta di un fatto straordinario ma non isolato in Europa.
Le sezioni non sono soltanto un luogo fisico nel quale ritrovarsi, fare riunioni e discutere di politica. Sono soprattutto uno strumento di azione sul territorio e, in particolare subito dopo la seconda guerra mondiale, esse si fanno carico di tutta una serie di compiti di «interesse pubblico» come ricostruire impianti di illuminazione pubblica o fognature messi fuori uso dalla guerra.
Ci sono anche un’altra serie di necessità che le sezioni coprono. Quelle della ricreazione. Un ambito che i comunisti vogliono strappare da un lato alle organizzazioni semplicemente ricreative, dall’altro alla Chiesa che, con i suoi oratori, aveva tradizionalmente una funzione di aggregazione giovanile.
Le sezioni quindi organizzano scuole di danza, palestre con corsi di boxe, di ginnastica, ma anche rappresentazioni teatrali, biblioteche coi libri «giusti» da leggere (e per molti è la prima occasione di prendere in mano un libro!).
Le memorie dei dirigenti e dei militanti ci dipingono uno scenario molto diverso da quello grigio e monocorde che talvolta capita di sentire narrare (sebbene vi sia da notare come la comunità politica del partito, così aperta verso i propri aderenti, poteva divenire ferocissima verso gli avversari, in particolare verso gli ex compagni).
La sezione non è dunque un luogo da frequentare solo per appuntamenti politici. Come ha scritto Diego Novelli, ex sindaco di Torino, «le sezioni erano posti da frequentare anche la sera della domenica» (Novelli 2006, p. 21) perché si ballava. Un ballo "politico", potremmo dire, perché alle 23 la musica si interrompeva e c’era quello che si chiamava il «richiamo politico», ossia un breve intervento di un dirigente locale che richiamava ai doveri della solidarietà di classe, alla militanza ecc. Ma c’era anche la lotteria nella quale si potevano vincere libri o abbonamenti alle riviste di partito. «La caricatura del PCI come mostro noioso, monolitico… semplicemente non corrisponde alla verità», scrive ancora Novelli (Novelli 2006, p. 21).
La sezione era anche il nucleo dal quale partivano le iniziative, non soltanto quelle politiche ma anche quelle di solidarietà, nelle quali il PCI, come altri partiti comunisti europei, si è sempre impegnato molto. È il caso, ad esempio, dell’alluvione del Polesine, nel novembre del 1951, quando il PCI torinese organizzò un’azione di solidarietà concreta con quelle popolazioni portandogli aiuto e offrendo ospitalità agli sfollati.
È soltanto un esempio, questo, per dimostrare come il più radicato partito comunista europeo, attraverso le sue articolazioni locali, concepisse la propria funzione non soltanto in termini di lotta politica, ma come azione di solidarietà fra le masse. Il PCI si comportava, insomma, come un’articolazione sociale dello Stato. E ciò testimonia come l’adesione ai valori della democrazia politica non fosse soltanto una retorica ma un elemento del quale sostanziare l’agire politico quotidiano.
Le sezioni sono dunque luoghi di azione politica, di discussione, di lotta ma anche di socialità e di divertimento. Così come spesso sono dei cuscinetti che si interpongono fra le ansie dei militanti e la società. Molte sezioni dopo la Liberazione organizzano, ad esempio, delle palestre di pugilato alle quali partecipano gli ex partigiani. «Così si sfogano» diceva uno degli organizzatori di questa iniziativa (Novelli 2006, p. 25). Era un modo per dare uno sfogo fisico alla frustrazione del dopo-Liberazione, quando molti partigiani si erano accorti che l’Italia per cui avevano combattuto non era certo quella dei governi De Gasperi.
La vita comunista aveva, in particolare nel fermento dei primi tempi del secondo dopoguerra, uno scopo ben definito che trascendeva l’individualità.
Miriam Mafai, all’epoca una giovane militante del PCI che poi sarebbe divenuta compagna di Giancarlo Pajetta, così la descrive: «Eravamo il “partito nuovo” e a questo partito ci stavamo legando come per matrimonio. Indissolubilmente. Nessuna di noi pensava così di “realizzarsi”, un vocabolo allora sconosciuto; volevamo piuttosto spendere le nostre vite per contribuire al farsi concreto di un progetto nel quale sommavamo, confusamente, la democrazia, la giustizia, la difesa dei disoccupati, dei senza tetto, dei bambini, e – chissà, forse – anche il socialismo» (Mafai 1997, pp. 23-24). E ancora: «Per questo progetto molti studenti lasciarono l’università, molte ragazze lasciarono la famiglia, molti giovanotti lasciarono gli studi degli avvocati, degli architetti, dei notai presso cui già lavoravano e scelsero di diventare “rivoluzionari di professione”, mettendosi al servizio del partito e della classe operaia» (Mafai 1997, p. 24).

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