martedì 25 febbraio 2014

E ORA CHE SI FA ???



Auguro a Matteo Renzi buona fortuna, anche se non condivido il suo azzardo. Voto la fiducia al governo perché se dovesse fallire aumenterebbe la sfiducia di un paese già molto provato. Non c’è bisogno però che proprio tutti si aggiungano al coro. Può essere utile anche segnalare i pericoli al fine di prevenirli. E soprattutto è necessario per chi è in minoranza lavorare a una prospettiva diversa da quella imposta in questi giorni.

Niente è più come prima
Ci troviamo di fronte a una grande decisione che in un colpo solo cambia il sistema politico e in una certa misura anche la natura del Pd.
Tra sinistra e destra viene stipulato un accordo per l’intera legislatura, e non più un’intesa parziale per il tempo necessario ad approvare la legge elettorale. Si tratta di una manifesta rottura del mandato ricevuto dai nostri elettori. Se infatti era ancora legittima, per quanto criticabile, la formazione di un governo provvisorio, non è invece neppure nella potestà della Direzione del partito decidere un’alleanza organica con la destra.
Nessuno ha chiarito perché si è abbandonata la priorità della legge elettorale. Forse Renzi ha temuto di non riuscire ad approvarla in Parlamento, capendo di aver sbagliato nel cercare l’accordo sull’Italicum con il solo Berlusconi e non con tutte le forze politiche come sarebbe doveroso su tale materia. Forse è alla ricerca di un nuovo azzardo per correggere quello non riuscito soltanto qualche settimana fa.
Ora è però evidente che l’intesa col Cavaliere era ben più ampia dell’argomento elettorale, come dimostrano la nomina di una persona di sua fiducia al ministero dello Sviluppo - con delega alle televisioni – e la dichiarazione di voto da parte di Forza Italia, insolitamente ben disposta verso il governo. La base parlamentare del governo è spostata più a destra rispetto al secondo Letta. Infine al Viminale rimane Alfano, che ha mentito al Parlamento sul caso Schabalayeva.
Il segretario del partito diventa premier con una manovra di vertice senza passare per il responso elettorale, stracciando l’impegno preso con i suoi sostenitori. Le primarie cambiano quindi significato: non più un movimento di partecipazione popolare che prepara il progetto vincente del Pd per le prossime elezioni, ma un plebiscito che autorizza il leader a giocare l’ambizione personale in unione mistica con l'ambizione nazionale. Un partito che accetta questo ribaltamento di sovranità - addirittura con l’assenso di una minoranza - è già meno democratico di prima. La successiva elezione di modesti segretari regionali (con poche eccezioni) porta a compimento il partito in franchising: la cura del brand al leader mediatico e la gestione del potere ai notabili. I pasdaran renziani hanno già proposto di togliere dal simbolo la parola “partito”, ma quella che rischia di diventare obsoleta è la parola “democratico”.
Chi ha rotto il patto con gli elettori e con il popolo delle primarie ora non può fare appello alla disciplina ai parlamentari. Se vengono meno i patti, in futuro saremo tutti meno legati. Tra i due strappi c’è una certa coerenza. Per assorbire un’alleanza di legislatura con la destra occorre un partito domato alla potenza del leader. E questa, d’altro canto, può essere spesa solo per un’ambizione di non breve durata.
La Crisi delle larghe intese
Se l’operazione andrà in porto - e non è certo – l’Italia avrà percorso quasi un decennio senza una normale alternanza politica, dalla crisi del governo Berlusconi nel 2010 fino alle prossime elezioni del 2018. Gli anni Dieci passeranno con le larghe intese considerate come unico possibile governo della Crisi più grande. Eppure, alla prova dei fatti, questa formula politica ha smentito clamorosamente le sue stesse promesse. Si è rivelata incapace di unire il paese in uno sforzo condiviso, e inefficace nella politica economica.
Proprio la sua versione più pura - con il governo di Monti - ha determinato una spaccatura profonda con la metà dei cittadini che alle elezioni del 2013, anche per gli errori della sinistra, hanno espresso un rifiuto per il sistema politico-istituzionale. I dieci milioni di voti persi dai due poli hanno reso impossibile il bipolarismo. Proprio l’eccesso di governabilità ha prodotto l’ingovernabilità.
D’altronde tale esito ha portato a compimento una precedente tendenza ad annacquare le differenze che è la vera causa del fallimento della Seconda Repubblica. Il bipolarismo italiano è stato più conflittuale a livello simbolico ma meno differenziato rispetto al mainstream economico. La destra non ha realizzato la promessa rivoluzione liberista e la sinistra non ha difeso coerentemente la dignità del lavoro. Nella paglia di questa doppia delusione è divampato il malessere sociale grazie alla scintilla della Crisi. Le piazze dei forconi, delle partite Iva, ma anche dei referendum dell’acqua, delle fabbriche chiuse, degli insulti grillini sono alimentate dalla mancanza di progetti politici diversi e credibili.

La medicina è stata peggiore del male. La pretesa di tenere insieme scelte politiche opposte ha paralizzato le decisioni. Nella riduzione delle tasse la mancata scelta tra il lavoro e il patrimonio ha bloccato la politica economica proprio nel momento più difficile della crisi. Non funziona più la vecchia agenda di governo scritta dall’establishment, semplificata nei talk-show ed eseguita maldestramente dai governi Monti e Letta.
Eppure si riprova senza cambiare nulla, puntando solo sull’energia giovanile di Renzi. Si affida all’uomo nuovo il compito di realizzare il programma vecchio. Ma nel frattempo la crisi ha bruciato le risorse disponibili e ha reso più stringenti i vincoli. Per fare le vere riforme non basta declamarle, ma occorre prima di tutto renderle possibili conquistando nuovi margini di manovra. Ciò però comporta la messa in discussione di assetti consolidati, di convenienze conservative, di equilibri a ribasso. Gli editorialisti riducono i problemi reali a facili slogan di largo consenso per larghe intese: riduzione spesa pubblica, meno tasse, più crescita. In realtà è ormai ineludibile una gigantesca ristrutturazione di interessi e di convinzioni, che può essere realizzata solo da politiche radicali o di destra o di sinistra.
Il tempo delle decisioni
È ormai tempo delle grandi decisioni. La sinistra italiana ha il dovere di proporle ad un paese smarrito.
1) In Europa non basta chiedere una deroga, bisogna ricontrattare le regole di Maastricht che stanno aggravando la crisi, come è ormai sotto gli occhi di tutti. A chiederlo devono essere i paesi fondatori come l'Italia, insieme agli altri paesi mediterranei, alla Francia e per certi versi anche alla Gran Bretagna. Sarebbe urgente un'iniziativa diplomatica del governo Renzi prima che le elezioni di maggio facciano emergere la sfiducia dei popoli verso il progetto europeo. Certo la cancellazione del ministero per le politiche europee alla vigilia del semestre italiano non è un buon segnale.
La misura dell'integrazione non può essere solo la moneta. Il salario minimo che i socialdemocratici hanno conquistato per i lavoratori tedeschi andrebbe garantito a tutti i lavoratori europei. Dovrebbe essere la priorità del programma comune dei socialisti europei.
2) La dignità del lavoro non può ridursi a retorica; è la leva per ribaltare le politiche che hanno prodotto la crisi. Il dominio che la finanza ha imposto all'economia reale non solo genera sofferenze sociali, ma apre una crepa perfino nell'establishment, come si è visto nel dissidio tra Monti e Squinzi. Le imprese che crescono nella competizione mondiale non hanno l'assillo dell'articolo 18, ma puntano sulla coesione sociale, sui giacimenti territoriali della creatività, sulle competenze del saper fare italiano.
Per la sinistra c'è l'occasione di allargare le alleanze a favore della politica per il lavoro. Le risorse si trovano proprio mettendo in discussione i santuari e i dogmi del passato: se la Banca d'Italia ha usato le riserve per sostenere le banche, può impegnarle anche per un prestito finalizzato all’investimento nell'agenda digitale e nella conoscenza; invece di usare le risorse dei lavoratori per finanziare le multinazionali che chiudono le fabbriche, i fondi pensione potrebbero essere incentivati a creare nuovo lavoro italiano; invece di aiutare il salotto buono, la Cassa depositi e Prestiti dovrebbe favorire la crescita di imprese innovative nel Mezzogiorno. Sono solo esempi, in cui si possono trovare circa 100 miliardi di investimenti per aumentare l'occupazione, invece di perdere tempo con gli spiccioli della legge di stabilità vincolata dalle regole europee.
3) Quando metteremo l'ingegno italiano al primo posto dell'agenda di governo? Sogno il giorno in cui Renzi verrà in Parlamento non solo a parlare bene degli insegnanti, ma a finanziare il progetto di aprire le scuole giorno e sera, per dare istruzione di qualità ai figli così come per riportare sui libri anche i genitori. Per realizzare una grande infrastruttura di formazione permanente che annodi intorno alle scuole tutti i fili della creatività sociale, dalle produzioni giovanili, al volontariato, alle imprese no-profit, alla condivisione dei saperi, alle innovazioni dei governi locali. Senza questi laboratori non si realizzano i cambiamenti di mentalità che dovranno sostenere il recupero ambientale, il nuovo welfare, la transizione tecnologica e cognitiva.
4) Non si riesce a governarla dall'alto, l’Italia. I migliori risultati sono venuti quando la politica ha saputo aiutare i riformatori che stavano già facendo qualcosa di buono nella società. Quando invece si è statalizzata la politica ha perso la forza vitale ed è ricorsa alla robotica delle riforme istituzionali. Quelle realizzate finora hanno accelerato le decisioni, ma solo per approvare decreti privi di visione che hanno finito per aumentare la burocrazia. Invece di giocare con i rami alti bisogna ricostruire il basamento dello Stato nel paese reale. Le riforme non sono editti normativi, sono politiche pubbliche complesse, durature e soprattutto capaci di coinvolgere le migliori energie civili della nazione.
5) La crisi rischia di rattrappire lo spirito pubblico, di alimentare le paure, di esaltare gli egoismi. La destra organizza la fabbrica dell'intolleranza per speculare sul ripiegamento del paese. Al contrario, le sfide del mondo nuovo richiedono un innalzamento di grado della civiltà italiana. La vergogna dei morti di Lampedusa pesa come un macigno e sollecita la sinistra non solo ad approvare lo ius soli ma ad un'azione quotidiana per migliorare l'accoglienza e la solidarietà. Così come sui diritti civili, il riconoscimento della vita in comune tra persone dello stesso sesso, la lotta contro la violenza verso le donne, le leggi devono adeguarsi alle migliori esperienze europee.
Dopo il governo Renzi
A volte, in Parlamento, guardo l'emiciclo e mi viene da pensare che oggi ci sarebbero i numeri per risolvere problemi di tal fatta, come non era mai accaduto nella storia repubblicana. E allora perché siamo costretti a stare sempre con la destra?
Purtroppo milioni di voti sono bloccati da quel comico che invecchia proprio male. Però oggi il ghiacciaio comincia a sciogliersi e diversi senatori Cinque Stelle, tra i quali ci sono persone serie e competenti, si aprono a un produttivo confronto parlamentare. E anche in Sel c'è una discussione in atto, alla quale il Pd non ha offerto alcuna sponda, aiutando indirettamente una tendenza alla radicalizzazione e deludendo chi ricordava il patto Italia Bene Comune votato dai nostri elettori. 
Sarebbe interesse di Renzi guardare con attenzione anche verso questo lato della dinamica parlamentare, senza chiudersi esclusivamente nell'intesa a destra. Se questa unilateralità fosse confermata saremmo costretti a prendere l'iniziativa di un libero confronto a sinistra. Qualcuno di noi si dovrà spingere più avanti come esploratore per trovare il valico che porta in un altro versante. Un giorno più o meno lontano finiranno anche le larghe intese. Ma già oggi bisogna preparare il dopo governo Renzi.

Non capisco perché abbiamo aperto questa discussione tra chi vuole stare dentro e chi fuori. Sarebbero due impoverimenti. La nostra forza è proprio nel doppio lavoro, all'interno per spostare l'asse politico del Pd, e all'esterno per allargare le alleanze sociali e politiche.
E poi lasciatemi dire - da vecchio militante - che scissione è proprio una brutta parola, ha un significato mutilante, un freddo suono metallico, un tempo senza futuro.
Le discussioni di questi giorni mi hanno ricordato l'89, quando erano in gioco passioni, storie e ideologie ben più importanti di oggi. Allora avevo la vostra età e rimasi affascinato dalle parole del mio maestro: nella lotta politica non ci sono acque tranquille, bisogna stare nel gorgo per cambiare le cose. Oggi, però, aggiungerei: fin quando non si rischia di affondare!  

Walter Tocci

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