lunedì 10 febbraio 2014

IL MONOLOGO TEATRALE

Molti teatranti (francesi, italiani, inglesi, spagnoli) lo usavano come sermone per catechizzare o eccitare “anime prave e deboli” ma non sapevano e forse non si rendevano conto che stavano usando uno stilema drammaturgico di grande impatto scenico, una struttura estetica autonoma e originale. Si cominciò a definirlo “drammatico” il monologo, per compenetrarlo compiutamente nell’ordito conflittuale della vicenda scenica ma era una definizione ridondante. Al di là della connotazione drammatica, il monologo acquista una fisionomia e un linguaggio suoi propri: interrompe e riprende l’azione, riassume e riconverte l’emozione dell’ascolto, dà lustro e ampiezza agli “sconfinamenti poetici” del drammaturgo e, non ultimo, consolida ed esalta la tecnica e la bravuta dell’attore o dell’attrice chiamati ad interpretarlo. Autori come Alfred Tennyson o Robert Browning si cimentano nel monologo tra Ottocento e Novecento, ma molto prima di loro ci avevano provato con insuperabile maestrìa Molière (Tartufo) e Edmond Rostand (Cyrano) e ci proveranno Luigi Pirandello (nel pressoché monologo de L’uomo dal fiore in bocca), Anton Cechov (Fa male il tabacco), Samuel Beckett (L’ultimo nastro di Krapp), Harold Pinter (Terra di nessuno), Eduardo De Filippo (Questi fantasmi!).
     Si è soli o quasi soli in scena e si parla di situazioni di vita che riguardano poi alla fine il proprio vissuto, o l’idea che si ha del proprio vissuto, riacciuffato e ripresentato attraverso la febbrile filigrana dell’intermediazione psicologica, per una trasparente e indocile autorappresentazione.
     Ivàn Ivànovič Njuchin di Cechov (di Fa male il tabacco) comincia a parlare del tema della conferenza – i danni provocati dal tabagismo – ma finisce per parlare dell’insofferenza e del fastidio che gli procura la moglie ossessiva. Così Spooner di Pinter (da Terra di nessuno) discetta a più riprese sulle potenzialità mistificatorie o evolutive della metafora, di quella figura retorica o di quel modo di dire convenzionale che si appiattisce appunto nella convenzionalità del dire, nella chimerica smania del pensare. Così Pasquale Lojacono di Eduardo (da Questi fantasmi!) che sul balcone illustra al suo dirimpettaio, il muto professor Santanna, la squisitezza di una tazza di caffè preparata in un pomeriggio tranquillo mentre si agitano, a sua insaputa, trame e personaggi di una relazione adulterina che il buon Lojacono non coglie se non come benefica apparizione di un munifico fantasma domestico. E così sarà per i drammaturghi più cupi e introversi (Strindberg, Beckett, Schnitzler) che concepiranno soliloqui interrotti e ricorrenti, brevissimi o lunghissimi, contrappuntati da una scansione scenica e narrativa diremmo subliminale, dominata da un’agnizione amara e disperata della realtà e del vivere.
     Nel monologo cosiddetto drammatico del Novecento si contempla persino la sfiducia del drammaturgo verso il teatro nella sua unicità e nella sua “utilità” estetica. Si affaccia una sfiducia nell’autore, un pessimismo irreparabile che contamina il linguaggio, rendendolo aereo e destrutturato per una poetica che travolge e riconfigura l’unità scenica del luogo e dell’azione, consegnandola ad un nonsense figurativamente espressivo (quello che Martin Esslin definì “Teatro dell’assurdo”). Ma in questa spoliazione testuale (o, per meglio dire, del meta-linguaggio testuale), il monologo resiste in brevi accordi, in sequenze reiterate, come ultimo baluardo del dire, del comunicare e, con maggiori difficoltà, del recitare.
     Il monologo diventa preponderante su tutto il resto del copione, lo rivitalizza e se ne discosta per tornare a essere, qui e , illuminante come collante necessario di quel coacervo verbale-gestuale che è un testo teatrale. Il monologo drammatico non poteva non diventare (o non poteva non tornare ad essere) compiutamente letterario nel monologo interiore nei romanzi di James Joyce, di Virginia Woolf, di Robert Musil, di Marcel Proust. Stavolta è un “parlare a se stessi” depositato nella forma scritta, destinato a essere letto e non più ascoltato, a stabilire quell’ideale identità o complicità che solo la lettura – una lettura certamente impegnativa e a volte errabonda – stabilisce tra chi ha scritto e chi apprezza appunto leggendo.
     E gli attori come intendono e come affrontano un monologo? Di solito gli attori sono restii a cimentarsi in quest’avventura scenica che, come tutte le avventure, nasconde insidie e riverbera limiti. Non è facile stare sulla scena da solo per un tempo che soltanto la bravura dell’interprete può dilatare o circoscrivere in una fruizione partecipativa da parte del pubblico. Il monologo impegna vocalmente e fisicamente un attore: c’è un ritmo interno al monologo da rendere come se fosse spontaneo mentre sappiamo benissimo che spontaneo non è. Trae in inganno il parlato dell’interprete, con l’illusione che tutto venga “improvvisato” al momento e, di sicuro, l’improvvisazione è un ulteriore artificio che l’attore “aggiunge” alla partitura di un testo da e per monologo. Grandi interpreti hanno magnificato il monologo elevandolo a spettacolo completo in versioni davvero sontuose, con l’ausilio di ricordi personali, di divagazioni extra-testuali, di canzoni, di pantomime. Basti pensare alle performance di Vittorio Gassman (Camper), di Carmelo Bene (Pinocchio), di Luigi Proietti nel celebre A me gli occhi, please di Roberto Lerici.
     E nel monologo (o col monologo) si sono impegnati negli ultimi anni moltissimi attori e attrici: alcuni di prestigio, altri di rincalzo o per imitazione. Sia gli uni che gli altri hanno inaugurato quella stagione di interpreti monologanti che ha contraddistinto spettacoli di arte varia di tipo auto-referenziale (non tutti eccellenti) che va sotto il nome di One-Man Show. L’essere soli sulla scena, con un testo composito da rappresentare in solitudine (dire-parlare-cantare), ha scoraggiato e incoraggiato gli interpreti per motivi che sono intuibili (durata e arditezza dello spettacolo, consunzione e volgarizzazione del genere) ma tutto, ovviamente, ricade e si giustifica sul e dal testo che si rappresenta, dalla regìa innovativa che disciplina la resa scenica e dall’attore o dall’attrice che si accolla tale fatica, che tende ad essere sempre più congrua e selettiva. Un mirabile esempio di testo composito o di monologo dai molteplici registri è stato il “Teatro Canzone” del compianto Giorgio Gaber. Anche gli spettacoli che allestisce Arturo Brachetti, tra travestimenti e colpi di scena, sono monologhi performativi, come lo sono gli spettacoli dei “Momix” o “Le Cirque du Soleil” tra mimo e acrobazia, come lo è Roberto Benigni quando, da solo, illustra e legge i canti danteschi della Divina Commedia.
     Surclassato o abusato dagli intepreti maschili, il monologo ha trovato fortuna anche tra le attrici che hanno scelto di confrontarsi temerariamente con questo tipo di progetto scenico. Le attrici avevano già incontrato brevi monologhi (o lunghe dissertazioni) nel repertorio classico moderno (da Le tre sorelle di Cechov a La donna del mare di Ibsen) ma hanno scelto di impegnarsi sulla scena quando si sono imbattute in scrittrici di inarrivabile spessore (Anna Maria Ortese, Natalia Ginzburg, Elsa Morante) oppure in storie e suggestioni più propriamente personalistiche come “I monologhi della vagina” del 1996 della scrittrice newyorchese Eve Ensler. Bisogna dire che “I monologhi della vagina” – portati sulla scena in Italia, fra le altre, da Marina Confalone, Claudia Gerini, Anna Bonaiuto e, in giro per il mondo anglo-sassone, da Susan Sarandon, Whoopi Goldberg, Glenn Close – hanno costituito una sorta di happening esistenzialistico più che di spettacolo teatrale vero e proprio, per i valori di denuncia sociale del machismo e di quello che oggi tristemente chiamiamo “femminicidio”.
     L’attenzione e la sensibilità delle nostre migliori attrici hanno consentito spettacoli dai risultati non convenzionali e non scontati per un repertorio “femminile” che di fatto è secondario rispetto a quello maschile ma prove di riscatto e di libertà non sono mancate (e vi rientra, in queste occasioni di identità, il breve monologo di Filumena Marturano di Eduardo quando la protagonista racconta l’umiliante passato di serva-amante).
     Resta da chiedersi com’è che si scrive oggi un monologo ma bisognerebbe chiederlo ai drammaturghi per sapere se scrivere un monologo risponda ad un’esigenza estetica primaria o se non costituisca, per la crisi degli allestimenti teatrali, una scelta superstite, un’opzione di sopravvivenza. È una questione spinosa che tutti, alla fine, tendono a nascondere o evitare, anche perché, per i drammaturghi, parlare di monologhi e poi scriverne è più prossimo ad una solitudine oggettiva che a quella metaforizzata sulla scena. Il monologo dell’io, in fondo, è sempre più scorbutico e scontroso da rappresentare: è un artificio e, come tale, rischia di essere tanto agevole quanto incompleto e occasionale, come succede a volte a tutto ciò che si scrive.

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