Molti teatranti (francesi, italiani, inglesi, spagnoli) lo usavano come
sermone per catechizzare o eccitare “anime prave e deboli” ma non
sapevano e forse non si rendevano conto che stavano usando uno stilema
drammaturgico di grande impatto scenico, una struttura estetica autonoma
e originale. Si cominciò a definirlo “drammatico” il monologo, per
compenetrarlo compiutamente nell’ordito conflittuale della vicenda
scenica ma era una definizione ridondante. Al di là della connotazione
drammatica, il monologo acquista una fisionomia e un linguaggio suoi
propri: interrompe e riprende l’azione, riassume e riconverte l’emozione
dell’ascolto, dà lustro e ampiezza agli “sconfinamenti poetici” del
drammaturgo e, non ultimo, consolida ed esalta la tecnica e la bravuta
dell’attore o dell’attrice chiamati ad interpretarlo. Autori come Alfred
Tennyson o Robert Browning si cimentano nel monologo tra Ottocento e
Novecento, ma molto prima di loro ci avevano provato con insuperabile
maestrìa Molière (Tartufo) e Edmond Rostand (Cyrano) e ci proveranno Luigi Pirandello (nel pressoché monologo de L’uomo dal fiore in bocca), Anton Cechov (Fa male il tabacco), Samuel Beckett (L’ultimo nastro di Krapp), Harold Pinter (Terra di nessuno), Eduardo De Filippo (Questi fantasmi!).
Si è soli o quasi soli in scena e si parla di situazioni di vita
che riguardano poi alla fine il proprio vissuto, o l’idea che si ha del
proprio vissuto, riacciuffato e ripresentato attraverso la febbrile
filigrana dell’intermediazione psicologica, per una trasparente e
indocile autorappresentazione.
Ivàn Ivànovič Njuchin di Cechov (di Fa male il tabacco)
comincia a parlare del tema della conferenza – i danni provocati dal
tabagismo – ma finisce per parlare dell’insofferenza e del fastidio che
gli procura la moglie ossessiva. Così Spooner di Pinter (da Terra di nessuno)
discetta a più riprese sulle potenzialità mistificatorie o evolutive
della metafora, di quella figura retorica o di quel modo di dire
convenzionale che si appiattisce appunto nella convenzionalità del dire,
nella chimerica smania del pensare. Così Pasquale Lojacono di Eduardo (da Questi fantasmi!)
che sul balcone illustra al suo dirimpettaio, il muto professor
Santanna, la squisitezza di una tazza di caffè preparata in un
pomeriggio tranquillo mentre si agitano, a sua insaputa, trame e
personaggi di una relazione adulterina che il buon Lojacono non coglie
se non come benefica apparizione di un munifico fantasma domestico. E
così sarà per i drammaturghi più cupi e introversi (Strindberg, Beckett,
Schnitzler) che concepiranno soliloqui interrotti e ricorrenti,
brevissimi o lunghissimi, contrappuntati da una scansione scenica e
narrativa diremmo subliminale, dominata da un’agnizione amara e
disperata della realtà e del vivere.
Nel monologo cosiddetto drammatico del Novecento si contempla
persino la sfiducia del drammaturgo verso il teatro nella sua unicità e
nella sua “utilità” estetica. Si affaccia una sfiducia nell’autore, un
pessimismo irreparabile che contamina il linguaggio, rendendolo aereo e
destrutturato per una poetica che travolge e riconfigura l’unità scenica
del luogo e dell’azione, consegnandola ad un nonsense
figurativamente espressivo (quello che Martin Esslin definì “Teatro
dell’assurdo”). Ma in questa spoliazione testuale (o, per meglio dire,
del meta-linguaggio testuale), il monologo resiste in brevi accordi, in
sequenze reiterate, come ultimo baluardo del dire, del comunicare e, con
maggiori difficoltà, del recitare.
Il monologo diventa preponderante su tutto il resto del copione, lo rivitalizza e se ne discosta per tornare a essere, qui e là,
illuminante come collante necessario di quel coacervo verbale-gestuale
che è un testo teatrale. Il monologo drammatico non poteva non diventare
(o non poteva non tornare ad essere) compiutamente letterario nel monologo interiore
nei romanzi di James Joyce, di Virginia Woolf, di Robert Musil, di
Marcel Proust. Stavolta è un “parlare a se stessi” depositato nella
forma scritta, destinato a essere letto e non più ascoltato, a stabilire
quell’ideale identità o complicità che solo la lettura – una lettura
certamente impegnativa e a volte errabonda – stabilisce tra chi ha
scritto e chi apprezza appunto leggendo.
E gli attori come intendono e come affrontano un monologo? Di
solito gli attori sono restii a cimentarsi in quest’avventura scenica
che, come tutte le avventure, nasconde insidie e riverbera limiti. Non è
facile stare sulla scena da solo per un tempo che soltanto la bravura
dell’interprete può dilatare o circoscrivere in una fruizione
partecipativa da parte del pubblico. Il monologo impegna vocalmente e
fisicamente un attore: c’è un ritmo interno al monologo da rendere come
se fosse spontaneo mentre sappiamo benissimo che spontaneo non è. Trae
in inganno il parlato dell’interprete, con l’illusione che tutto venga
“improvvisato” al momento e, di sicuro, l’improvvisazione è un ulteriore
artificio che l’attore “aggiunge” alla partitura di un testo da e per
monologo. Grandi interpreti hanno magnificato il monologo elevandolo a
spettacolo completo in versioni davvero sontuose, con l’ausilio di
ricordi personali, di divagazioni extra-testuali, di canzoni, di
pantomime. Basti pensare alle performance di Vittorio Gassman (Camper), di Carmelo Bene (Pinocchio), di Luigi Proietti nel celebre A me gli occhi, please di Roberto Lerici.
E nel monologo (o col monologo) si sono impegnati negli ultimi anni
moltissimi attori e attrici: alcuni di prestigio, altri di rincalzo o
per imitazione. Sia gli uni che gli altri hanno inaugurato quella
stagione di interpreti monologanti che ha contraddistinto spettacoli di
arte varia di tipo auto-referenziale (non tutti eccellenti) che va sotto
il nome di One-Man Show. L’essere soli sulla scena, con un
testo composito da rappresentare in solitudine (dire-parlare-cantare),
ha scoraggiato e incoraggiato gli interpreti per motivi che sono
intuibili (durata e arditezza dello spettacolo, consunzione e
volgarizzazione del genere) ma tutto, ovviamente, ricade e si giustifica
sul e dal testo che si rappresenta, dalla regìa innovativa che
disciplina la resa scenica e dall’attore o dall’attrice che si accolla
tale fatica, che tende ad essere sempre più congrua e selettiva. Un
mirabile esempio di testo composito o di monologo dai molteplici
registri è stato il “Teatro Canzone” del compianto Giorgio Gaber. Anche
gli spettacoli che allestisce Arturo Brachetti, tra travestimenti e
colpi di scena, sono monologhi performativi, come lo sono gli spettacoli
dei “Momix” o “Le Cirque du Soleil” tra mimo e acrobazia, come lo è
Roberto Benigni quando, da solo, illustra e legge i canti danteschi
della Divina Commedia.
Surclassato o abusato dagli intepreti maschili, il monologo ha
trovato fortuna anche tra le attrici che hanno scelto di confrontarsi
temerariamente con questo tipo di progetto scenico. Le attrici avevano
già incontrato brevi monologhi (o lunghe dissertazioni) nel repertorio
classico moderno (da Le tre sorelle di Cechov a La donna del mare
di Ibsen) ma hanno scelto di impegnarsi sulla scena quando si sono
imbattute in scrittrici di inarrivabile spessore (Anna Maria Ortese,
Natalia Ginzburg, Elsa Morante) oppure in storie e suggestioni più
propriamente personalistiche come “I monologhi della vagina” del 1996
della scrittrice newyorchese Eve Ensler. Bisogna dire che “I monologhi
della vagina” – portati sulla scena in Italia, fra le altre, da Marina
Confalone, Claudia Gerini, Anna Bonaiuto e, in giro per il mondo
anglo-sassone, da Susan Sarandon, Whoopi Goldberg, Glenn Close – hanno
costituito una sorta di happening esistenzialistico più che di spettacolo teatrale vero e proprio, per i valori di denuncia sociale del machismo e di quello che oggi tristemente chiamiamo “femminicidio”.
L’attenzione e la sensibilità delle nostre migliori attrici hanno
consentito spettacoli dai risultati non convenzionali e non scontati per
un repertorio “femminile” che di fatto è secondario rispetto a quello
maschile ma prove di riscatto e di libertà non sono mancate (e vi
rientra, in queste occasioni di identità, il breve monologo di Filumena Marturano di Eduardo quando la protagonista racconta l’umiliante passato di serva-amante).
Resta da chiedersi com’è che si scrive oggi un monologo ma
bisognerebbe chiederlo ai drammaturghi per sapere se scrivere un
monologo risponda ad un’esigenza estetica primaria o se non costituisca,
per la crisi degli allestimenti teatrali, una scelta superstite,
un’opzione di sopravvivenza. È una questione spinosa che tutti, alla
fine, tendono a nascondere o evitare, anche perché, per i drammaturghi,
parlare di monologhi e poi scriverne è più prossimo ad una solitudine
oggettiva che a quella metaforizzata sulla scena. Il monologo dell’io,
in fondo, è sempre più scorbutico e scontroso da rappresentare: è un
artificio e, come tale, rischia di essere tanto agevole quanto
incompleto e occasionale, come succede a volte a tutto ciò che si
scrive.
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